La politica identitaria un’arma a doppio taglio

23 Set 2021

Nadia Urbinati Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

 

L’articolo sulla sinistra illiberale uscito sull’Economist due settimane fa, e che ha fatto tanto discutere, ha lo stile del manifesto: un testo per la battaglia ideologica, più che per un dibattito teorico e filosofico sul ruolo della libertà civile, i limiti della società e quindi anche delle appartenenze sociali delle persone.

Temi che dal XIX secolo attraversano le società moderne, a partire dal saggio Sulla libertà di John Stuart Mill, che ha ispirato lotte importanti. Pensiamo, alla sua edizione italiana nel 1925 per la casa editrice Gobetti, con prefazione di Luigi Einaudi. Il saggio di Mill denunciava il conformismo delle opinioni non la tirannia politica, eppure nel 1925 fu usato come manifesto antitirannico.

Quindi quello che l’Economist chiama “liberalismo classico” ha una larga possibilità d’uso. Se lo si inchioda a una definizione, si rischia di perderne la forza critica e attrattiva che lo anima. Invece per opporlo all’illiberalismo di sinistra, il “liberalismo classico” dell’Economist rischia di farsi dogmatico e compromettere la buona intenzione dalla quale è mosso.

Il “liberalismo classico” ha due specie di avversari: quelli più prevedibili e quelli meno. I primi sono a destra (ieri i fascisti e i nazisti, oggi i populisti, i nazionalisti xenofobi, gli integralisti religiosi, cristiani e mussulmani). I secondi sono a sinistra (ieri i comunisti e gli statalisti welfaristi oggi gli identitari). La polemica dell’Economist ha senso soprattutto nella società americana, ma si appresta a valere anche per altre società, come si è visto con la battaglia per i diritti lgbg,

Ora, se populisti e xenofobi sono chiaramente avversari, diverso è il caso dei liberal (liberali progressisti) che nascono dal tronco del “liberalismo classico” definito dall’Economist come filosofia sociale per meglio usarlo contro questi illiberali. Mette dunque al primo posto la filosofia anti-deterministica della società, per cui nessuno conosce la direzione del progresso e al massimo esprime ideali e desideri.

L’individuo liberale sceglie stili di vita, ma non “appartiene” a classi o gruppi; e la società non è riconducibile a strutture predefinite; non ci sono leggi scientifiche che ci assicurino di un qualche esito progressivo. E questa ignoranza è una garanzia di libertà.

Una filosofia sociale, quella dell’Economist, molto semplice, che serve a uno scopo: attaccare la teoria identitaria della sinistra illiberale, la quale usa appunto l’appartenenza per rivendicare i diritti, che sono quindi individuali e liberali a metà. Per la sinistra i gruppi contano: ieri era la classe a fare il gioco del potere, oggi sono le identità.

Per il “liberalismo classico” nessun gruppo ha controllo sulla vita delle persone, né una maggioranza eletta, né identità ascrittive. Le quali sono invece centrali per l’illiberalismo di sinistra. La politica identitaria è un’arma a doppio taglio però. Da un lato, crea lobby capaci di ottenere quello che individui disaggregati non riescono, per esempio diritti. Dall’altro si arma di una filosofia sociale con una spiccata tensione all’intolleranza e all’esclusione verso simboli, linguaggi e culture che sono identificati con politiche a loro volta identitarie, quelle dei maschi bianchi occidentali.

L’identitarismo è uno degli esiti del deperimento dei partiti politici, quelle associazioni che davano potere agli individui e che, diventando macchine elettorali, hanno perso questa funzione. Come possono gli individui avere unità di voce? Questo problema, che l’Economist non si pone, è invece cruciale.

Le identità hanno rimpiazzato i partiti nella lotta politica e, come i partiti, hanno le loro ideologie unificanti. Ma se i partiti univano in linguaggi politici, quindi potenzialmente inclusivi, le identità di oggi sono e vogliono essere univoche ed escludenti. Sono per tanto più faziose dei partiti e, soprattutto, meno ‘universali’ nel messaggio e negli scopi.

Fanno dimenticare che i diritti rivendicati da una parte – discriminata – non sono mai di quella parte soltanto, ma di tutti e di ciascuno. E questo significa che le identità non sono cittadelle chiuse, ma possibilità di scelta per tutti, I diritti che riconoscono il matrimonio omosessuale non sono “degli” omosessuali, ma di tutti coloro che vogliono goderne.

In conclusione: bene distinguere forme di liberalismo, ma molto problematico adottare una logica binaria che fa vedere il problema a metà. Dietro l’identitarismo vi è il deperimento della politica dei partiti. Senza la quale, gli individui e basta hanno davvero poco potere, soprattutto se non hanno quello socio-economico.

Domani, 22 settembre 2021

Politologa. Titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. Come ricercatrice si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo e delle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Collabora con i quotidiani L’Unità, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano e con Il Sole 24 Ore; dal 2019 collabora con il Corriere della Sera e con il settimanale Left.

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