I processi mediatici insidiano il ruolo della magistratura

25 Giu 2021

Non si tratta soltanto delle invettive dei politici. Ancora peggio sono i “fori alternativi” allestiti in tv. Nei Paesi anglosassoni si parlerebbe forse di “oltraggio alla corte”. Da troppo tempo tra mass media e giustizia penale si è instaurata un’anomala osmosi, che, senza aggiungere nulla in termini di completezza e di attendibilità dell’informazione, condiziona gli attori e talvolta l’esito del processo.

A preoccupare non è tanto il refrain con cui gli uomini politici indagati inveiscono contro la “giustizia ad orologeria”, che li avrebbe raggiunti guarda caso “proprio adesso che…”. L’insistenza con cui, invece di difendersi dall’accusa, ci si impegna ad adombrare torbide cospirazioni è oramai talmente scontata che in genere la si ascolta con annoiata disattenzione. Una linea difensiva così strumentale, che qualche magistrato si è fatto carico, con indecente, soccorrevole zelo, di darle un pur isolato fondamento.

A preoccupare non sono forse neppure alcuni sfoghi emotivi di congiunti degli indagati, come di recente lo scomposto video-messaggio con cui un noto personaggio si è lanciato in un’intemerata contro l’inchiesta giudiziaria riguardante suo figlio: i toni smodati, gli argomenti inconferenti, le provocazioni irricevibili la rendevano, infatti, inidonea ad incidere sul fisiologico corso della giustizia.

A preoccupare è la propensione di alcuni organi inquirenti a cercare o a consentire che i risultati di un’indagine guadagnino il proscenio mediatico, corredandoli con una tale dovizia di documenti, di interviste, di perentorie valutazioni, di riproduzioni di intercettazioni, da conferire ad essi il crisma della evidenza e della inoppugnabilità. Di certo, una condotta in dissonanza con le Linee-guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale (emanate dal Csm nel 2018), specie là dove queste pretendono dagli uffici requirenti che la presentazione del contenuto di un’accusa risulti “imparziale, equilibrata e misurata”, assicurando “il rispetto della presunzione di non colpevolezza” e dunque evitando “ogni rappresentazione delle indagini idonea a determinare nel pubblico la convinzione della colpevolezza delle persone indagate”, in modo che l’informazione sia “rispettosa delle decisioni e del ruolo del giudice”. Evidente anche il contrasto di una tale impropria ricerca di consenso con l’ancora inattuata Direttiva Ue 2016/343, che impegna gli Stati membri ad adottare le misure necessarie affinché le autorità pubbliche, nel fornire informazioni ai media, non presentino gli indagati o gli imputati come colpevoli.

A preoccupare è poi la tendenza a predisporre format televisivi che, scimmiottando la giustizia ordinaria, allestiscono un foro “mediatico” alternativo, in cui si affastellano ad elementi acquisiti durante l’indagine giudiziaria altri (testimonianze, interviste, voci correnti, sopralluoghi, foto, sms, mail, social) raccolti, senza regole né garanzie, sguinzagliando un microfono o una telecamera. Questa sorta di “rappresentazione para-processuale” – ha da tempo ammonito l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni – genera, “con l’immediatezza propria della comunicazione televisiva”, “una sorta di convincimento pubblico in apparenza degno di fede sulla fondatezza” dell’accusa: nella percezione di massa, infatti, la comunicazione televisiva svolge una “funzione di validazione della realtà”; di certo favorita, aggiungiamo noi, qualora a darle credito concorra la sciagurata presenza di magistrati o avvocati. Se, dopo anni, il pronunciamento giurisdizionale confermerà la “sentenza mediatica”, offrirà l’impressione di una giustizia inutilmente lenta. Se, invece, dovesse discostarsene, sarà la prova di quanto sia formalistica e fallace la giustizia istituzionale, atteso che la verità nell’immaginario collettivo resterà quella apparsa sullo schermo.

Le condotte sin qui menzionate costituiscono fattori destinati potenzialmente ad interferire con il fisiologico svolgimento del processo e con la corretta formazione del convincimento giudiziale. Talune di esse, in ordinamenti di common law, potrebbero integrare il reato di contempt of Court, oltraggio alla corte: illecito che si propone di tutelare l’interesse della collettività ad una corretta amministrazione della giustizia, sanzionando i comportamenti che possono influenzarne unfairly il corso e l’esito.

Sulla loro crescente capacità perturbativa, del resto, è difficile non convenire. Se si pensa che il vigente sistema processuale si preoccupa, non senza impegnativi adempimenti, di sottrarre di regola al giudice la conoscenza degli atti di indagine per evitare che ne resti influenzato e per garantire che la sua decisione si fondi tendenzialmente soltanto sulle prove formate dinanzi a lui, non è difficile cogliere lo stravolgimento che può essere prodotto, ad esempio, da una “raccolta indifferenziata” di notizie, megafonicamente propalate.

La Corte di Cassazione, preso atto che in simili evenienze gli strumenti a tutela del libero convincimento del giudice, come il trasferimento del processo, risultano inefficaci, ritiene che la professionalità dei magistrati dovrebbe consentire loro di acquisire una sorta di mitridatizzazione rispetto al rimbalzo multimediale proveniente dalle vicende su cui debbono pronunciarsi. Ma, a parte che è tutto da dimostrare se, quando e in che misura il singolo magistrato risulti “immunizzato”; a parte che, a tutto concedere, una simile capacità non si può certo né presumere, né pretendere dal giudice popolare di una Corte di Assise o dal componente onorario del Tribunale per i minorenni o di sorveglianza, resta il fatto che, quand’anche il magistrato riesca a mantenere un’imperturbabile serenità di giudizio, dovrà decidere sulla base di materiale contaminato. La stessa Cassazione ha dovuto prendere atto che l’assordante bombardamento mediatico non di rado ha compromesso il risultato di alcune importanti indagini (ad esempio nel processo Sollecito) e corrotto – sino a renderli inservibili o, peggio, fuorvianti – alcuni contributi testimoniali, come nei processi Pacciani per i delitti del “mostro di Firenze” e Stasi per l’omicidio di Chiara Poggi a Garlasco.

È un andazzo cui non ci si deve rassegnare. Per quanto il problema possa essere delicato per le sue implicazioni in termini di libertà di espressione, è ormai necessario lavorare ad una efficiente rete di misure interdittive, disciplinari e pecuniarie a protezione dell’amministrazione della giustizia.

Qualcuno potrebbe far notare quanto sia intempestivo un richiamo alla tutela della funzione giurisdizionale nel periodo in cui questa è caduta nel più profondo discredito. Ci si potrebbe limitare a replicare che la stragrande maggioranza dei magistrati svolge la sua funzione con la competenza e l’equilibrio necessari, talvolta con qualità speciali. Preme tuttavia aggiungere che addebitare a tutta la magistratura le indegne condotte di taluni suoi esponenti, anche di vertice, è non solo ingiusto, ma anche irresponsabile.

Una collettività che non crede nella giustizia è destinata a cercarla altrove (protezioni politiche, potentati economici, corporazioni, associazioni occulte, quando non criminali) e sarebbe un preannuncio di disgregazione civile. Proprio in un momento di diffusa sfiducia, bisognerebbe – oltre che rimuovere i magistrati “infedeli” al proprio ruolo e “bonificare” i circuiti inquinanti – ribadire con forza le ragioni e le garanzie della funzione giurisdizionale. Sarebbe un grave azzardo rimetterle in discussione, come non dovremmo mai rimettere in discussione, per la presenza di politici corrotti, le garanzie della democrazia parlamentare.

Corriere della Sera, 20 giugno 2021

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