Covid: Il ruolo trainante della Merkel in Europa

21 Dic 2020

Il Governo, in meno di una settimana, è passato dal discutere se attenuare le misure restrittive già previste per Natale, Santo Stefano e Capodanno, a decidere invece di inasprire quelle stesse misure che pensava di alleggerire poco prima: ciò non si deve, a mio parere, a nuove evidenze date dalla curva dei contagi, che nel giro di quei pochi giorni non era mutata repentinamente (né tantomeno alla “variante inglese”, di cui si è diffusa la notizia solo nelle ultime ore),ma dal carattere trainante che ha assunto (come per tutta Europa) la decisione del governo tedesco circa un nuovo lockdown, preceduta da un accorato discorso al Parlamento della Cancelliera Angela Merkel, che ha messo al primo posto la tutela della vita umana; e forse anche da una più attenta considerazione dei “veri” umori dell’opinione pubblica.

Prima di ogni altra valutazione, è opportuno però ripercorrere il dibattito pubblico in tema di pandemia, che a mio avviso è stato pieno di errori e contraddizioni che sono alla base delle scelte tardive ed esitanti del governo italiano, le quali a loro volta hanno favorito (o non efficacemente contrastato) il diffondersi della cosiddetta “seconda ondata”, in tal modo, tra l’altro, non solo cagionando migliaia di morti, ma rendendo vani i sacrifici fatti col lockdown di primavera (proprio quello che il Governo stesso aveva detto di voler evitare).

Emblematica, per chi volesse indagare le illusioni ottiche in cui è caduta una parte almeno dell’opinione pubblica, e forse della classe politica, è la puntata del 18 ottobre della trasmissione televisiva “Non è l’arena”, trasmessa su La 7 (rete peraltro benemerita, ma per altre trasmissioni), di cui fornisco il link per chi non l’avesse vista o volesse rivederla: Non è l’ Arena.

Tale trasmissione (contemporanea al secondo DPCM della “seconda ondata”), chiaramente ispirata a quella tendenza “minimizzatrice” dell’emergenza sanitaria di cui sono portavoce i due medici lì ospitati (ossia i professori Zangrillo e Bassetti; ci mancava solo Sgarbi), vede come punto centrale dell’argomentazione del non imparziale conduttore un tabellone, enfaticamente proposto come chiave interpretativa del problema .  Tale tabellone riporta i seguenti numeri, che pongono a confronto i dati epidemiologici del 21 marzo con quelli del 14 ottobre, per dimostrare la tesi secondo cui, malgrado qualche apparenza, la situazione di ottobre sarebbe stata radicalmente diversa da quella che si era avuta in marzo, e assai meno preoccupante.

21 marzo I NUMERI 14 ottobre
6.557 Contagi 7.332
26.336 Tamponi 152.199
25% Positivi/tamponi 4,8%
793 Vittime 43
7,8% Letalità 0,3%
17.708 Ricoverati con sintomi 5.470
2.857 Terapie intensive 539

In sostanza, questi dati, così come offerti, potevano suggerire l’impressione che, se il numero  assoluto dei contagi era comparabile (e superiore) a quello registrato nel pieno dell’emergenza vissuta in primavera, ciò era dovuto solo al maggior numero dei tamponi, per cui non erano giustificate nuove restrizioni.

L’errore è tuttavia abbastanza evidente anche per chi, come il sottoscritto, sia a digiuno di nozioni mediche. Quel che rilevava, in quel momento, e che aveva spinto il Governo a prendere le prime (deboli ed insufficienti, come poi si vedrà) misure, non era tanto il numero assoluto di contagi in sé (e sul quale la spiegazione minimizzante poteva anche convincere), ma l’andamento, il trend.  E’ noto infatti (e se non lo fosse, l’esperienza avrebbe dovuto insegnarlo a tutti) che le epidemie, nei periodi di crescita, presentano una tendenza ad espandersi che ricorda quella degli incendi, il che comporta che si possono vincere se si gioca d’anticipo, ossia se adottano misure di distanziamento prima che dilaghino, appena si manifestano i primi segni di diffusione. Se si attende, se si temporeggia per poi “inseguire il virus”, inasprendo gradualmente le restrizioni man mano che il contagio si diffonde, allora, come è stato detto dagli esperti (quelli veri), si dovranno prima o poi adottare le stesse misure, con ancor più gravi conseguenze nella sfera economico-sociale, ma dopo aver subito un danno assai superiore in termini di salute e di vite umane.

Il paragone col 21 marzo, cioè col picco epidemico, pertanto, era improprio: semmai si sarebbe dovuto pensare al periodo tra la fine di febbraio e i primi di marzo, cioè all’inizio della pandemia, e nel quale si sarebbero potute adottare (ma forse allora non si avevano le informazioni necessarie) misure preventive che l’avrebbero impedita.

Questo il grafico che rappresenta l’andamento della curva dei contagi tra febbraio e marzo, all’inizio del manifestarsi dell’epidemia (fonte: Istituto Superiore di Sanità, in www.epicentro.iss.it )

grafico 1

Osservando un altro grafico, si nota, sia tra la fine di febbraio e i primi di marzo, sia in ottobre (sia pure con un numero assoluto di contagi diverso, perché in primavera venivano rilevati soli i sintomatici, stanti le difficoltà diagnostiche del momento; e quindi con una curva che sembra inferiore durante la “prima ondata”) una somiglianza nel rapido salire della curva epidemica (fonte: www.statistichecoronavirus.it)

grafico 2

In ottobre, però, a differenza che a marzo, non soltanto si poteva sfruttare l’esperienza della prima ondata per capire come si sviluppava l’epidemia, ma si poteva anche approfittare del fatto che la seconda ondata si era già manifestata nel resto d’Europa, per capire quali sarebbero stati, di lì a poco, gli sviluppi. Se si prendono i  dati sui nuovi contagi e sui decessi per Covid-19 comparativamente in Italia, Francia e Spagna, nei mesi che vanno da giugno a dicembre, come risultano dalla seguente tabella  (dati elaborati su fonte www.statistichecoronavirus.it )

Nuovi contagi nel mese Decessi nel mese
Italia Francia Spagna Italia Francia Spagna
Giugno 7.741 13.633 10.021 1.313 1.028 1.237
Luglio 6.398 22.217 38.863 358 404 81
Agosto 23.031 98.770 182.451 345 398 707
Settembre 47.220 293.018 307.634 507 1.368 2.821
Ottobre 391.926 842.013 407.071 2.828 5.023 3.905
Novembre 911.566 824.173 470.766 17.535 16.538 9.633

si vede chiaramente che i primi segnali della ripresa dell’epidemia si erano manifestati in altri paesi d’Europa (almeno nei due che qui si sono presi a comparazione, per semplicità di esposizione; ovviamente si possono trovare dati simili anche in altri paesi) fin da luglio, proprio quando da noi la curva proseguiva la sua discesa. Si può anche notare che era evidentissima la crescita esponenziale nei due paesi in confronto già nei mesi di luglio, agosto e settembre (in Francia, in agosto, i contagi sono il quintuplo che nel mese precedente; in settembre, quasi il triplo che in agosto; in Spagna, in luglio, i casi sono il quadruplo che in giugno, e in agosto tra il quadruplo e il quintuplo che in luglio). E soprattutto si poteva facilmente prevedere la curva dei decessi: nonostante la ripresa del contagio si manifesti  fortissima in Francia e Spagna già in luglio e agosto, in quei mesi i decessi (che, evidentemente, per i “tempi tecnici” del decorso della malattia, seguono a molta distanza i nuovi contagi) diminuiscono (in Francia in entrambi i mesi; in Spagna fortemente in luglio – proprio quando i contagi riprendono alla grande – anche se aumentano nuovamente in agosto, cominciando a risentire dei nuovi contagi del mese precedente). Ma poi , nei mesi successivi, aumentano anch’essi in modo esponenziale.

Due prime riflessioni. La prima è che i dati giornalieri, con i confronti fatti solo nel breve periodo (tra oggi e ieri) non offrono un quadro d’insieme,  e rischiano anzi di assuefare gradualmente l’opinione pubblica alla crescita del contagio, mentre sono molto più significativi i dati che aggregano periodi un po’ più lunghi, poiché consentono di valutare la dinamica del contagio, la piega che prende. La seconda è che, con quei dati in altri paesi europei, sarebbe stato molto opportuno per l’Italia, già dal mese di luglio, chiudere i confini nazionali (salva la quarantena) e fare una sorta di “autarchia turistica” (non sarebbero arrivati i turisti stranieri, ma gli operatori avrebbero compensato il danno con la clientela nazionale), invece di perder tempo a polemizzare con quei paesi che, all’inizio dell’estate, prospettavano di chiudere le porte ai turisti italiani.

Tornando alla trasmissione da cui si sono prese le mosse, si può cominciare a comprendere come fosse fuorviante il confronto con marzo paragonando solo due giorni isolati, cioè dati “statici”, anziché l’andamento del contagio, cioè i dati dinamici. E se anche ci si fosse limitati a prendere in considerazione periodi più brevi, cioè le settimane anziché i mesi, la situazione sarebbe emersa con chiarezza. Anzitutto, confrontando il dato giornaliero di mercoledì 14 ottobre (data presa in considerazione dal conduttore), pari a 7.332 contagi giornalieri, con quelli dei mercoledì precedenti, balza subito agli occhi una crescita esponenziale: i 7.332 nuovi casi del 14 ottobre sono infatti circa il doppio dei 3.678 del giorno 7, i quali sono circa il doppio dei 1.851 del giorno 30 settembre. Se poi si volesse fare un’analisi più approfondita, e prendere in considerazione anche il numero dei tamponi, che influenza ovviamente il numero dei casi rilevati, si avrebbe la seguente tabella

Data Nuovi casi nella settimana Nuovi tamponi nella settimana Percentuale contagiati su tamponi
14 ottobre 38.859 845.493 4,5%
7 ottobre 19.079 735.480 2,5%
30 settembre 12.324 654.247 1,8%
23 settembre 11.095 635.124 1,7%

dalla quale emerge che, mentre la trasmissione proclamava la tesi che “non era come in marzo” (sulla falsariga della celebre canzone “Non è Francesca” di Lucio Battisti), la percentuale di positivi sui tamponi eseguiti era doppia rispetto alla settimana precedente, quando già era in notevole aumento rispetto a quella prima. Insomma, una crescita esponenziale che lo stravagante (nel senso etimologico di extra-vagante, che va fuori del segno) confronto col 21 marzo non consentiva certo di cogliere.

Di fronte alla situazione che si andava profilando,  e per comprendere la quale non era necessario essere virologi, bastando il buon senso e un minimo di osservazione, le risposte del Governo sono state incredibilmente  tardive, parziali e insufficienti: basti dire che l’attività dei ristoranti (un luogo oggettivamente a rischio, indipendentemente dalle precauzioni adottate dai gestori, perché, per mangiare, uno la mascherina se la deve togliere per forza) è stata consentita, al tavolo, fino alle ore 24, coi DPCM del 13 e del 18 ottobre, e solo il 24 ottobre è stata limitata dalle ore 5 alle 18: misura analoga a quella che era stata adottata nelle zone rosse col DPCM dell’8 marzo, e che, vistane l’inutilità, era stata sostituita con la sospensione totale, in tutto il territorio nazionale,  già tre giorni dopo, col DPCM dell’11 marzo. Ma, di tale inadeguatezza, una buona parte di responsabilità va addebitata, oltre che alle irresponsabili opposizioni (che accusavano il Governo di “allarmismo”, in coerenza con una politica volta a far prevalere le ragioni dell’economia, assurdamente contrapposte a quelle della sanità), anche a molti commentatori che hanno disinformato un’opinione pubblica resa insofferente dalle conseguenze economiche delle restrizioni , e che in qualche modo si andava assuefacendo al crescere dei contagi e dei morti, nella (peraltro inesatta, e comunque cinica) convinzione che “tanto muoiono solo i vecchi”. Il tutto accompagnato da abissali idiozie come quelle che le varie corporazioni contrarie alle restrizioni andavano sostenendo, e cioè che “non è al cinema che ci si contagia”, “non è a teatro che ci si contagia”, “non è al ristorante che ci si contagia”, “non è a scuola che ci si contagia” (ma allora, dove diamine ci si contagia?), appoggiandosi ad improbabili statistiche che avrebbero dimostrato la bassa percentuale di contagi in ciascuna delle diverse circostanze citate (come se fosse facile individuare, a posteriori, il dove, il come e il quando di ogni singolo contagio). Ma tutto ciò riguardava una parte soltanto della pubblica opinione: una parte magari rumorosa, ma minoritaria, poiché i sondaggi mostrano che  la stragrande maggioranza degli interpellati o è favorevole alle misure governative, o vi è contraria perché le ritiene insufficienti: un sondaggio del 21 ottobre scorso (Covid, sondaggi: l’opinione degli italiani sulle misure adottate dal governo (la7.it))mostra che il 44% degli intervistati riteneva adeguate le misure del Governo (il che ovviamente non è un giudizio tecnico, ma sta solo ad indicare l’opinione che delle misure restrittive andavano comunque prese), il 33% insufficienti, e solo il 13% eccessive. Una più recente rilevazione, del 3-4 dicembre (Demopolis: il nuovo DPCM e il Decreto Natale nell’opinione degli italiani – Demopolis) indica che il 70% è per mantenere la linea del rigore, e solo il 27% per allentare i divieti. La politica, nella sua miopia, sembra aver scambiato per vox populi solo chi rumoreggiava, magari scendendo in piazza, come è avvenuto a fine ottobre, senza tenere conto della vera maggioranza (si potrebbe dire, silenziosa) del Paese, la stessa che in qualche regione, come ad esempio la Campania, aveva tributato nello scorso settembre una rielezione plebiscitaria (anche i vecchi votano) al Presidente De Luca, che (stando ai precedenti sondaggi) pareva improbabile prima della crisi sanitaria e del rigore da lui mostrato in tale occasione. E visto che si parla di De Luca, vale la pena ricordare la sua drammatica conferenza stampa del 23 ottobre, in cui rivolgeva al Governo un accorato appello rimasto inascoltato e soverchiato dalle critiche di larga parte degli opinion makers, al pari di un appello di 100 scienziati diffuso il giorno successivo, con cui si prevedeva l’aumento dei decessi fino a 400-500 al giorno (qui) – previsione errata solo per difetto, come  poi si è visto – e che vedeva la firma anche di qualche economista, segnalando che le misure restrittive sarebbero servite proprio a salvare l’economia e i posti di lavoro, inevitabilmente pregiudicati da un dilagare fuori controllo della pandemia che si fosse protratto per molti mesi. Ci possono essere mille motivi per dissentire da De Luca, e non è questa la sede per esaminarli, ma certo è che sul Covid è stato uno dei pochi, nella classe politica, a vedere giusto  e a parlare chiaro (anche se non sempre ha fatto seguire alle parole i fatti).

Infine, la Merkel. Nel generale disorientamento europeo, in mezzo a governi che avevano tardato e stentavano a prendere i provvedimenti necessari, la guida di un Paese, che tutto sommato era tra quelli che stavano meno peggio, ha preso la parola per dire che quel numero di morti era insopportabile. La prima che, dopo tanto tempo, si è ricordata dei morti, che ha messo al primo posto la vita umana, e non l’economia (del mese in corso: perché, come si è visto, a più lungo termine anche l’economia si sarebbe giovata di misure drastiche, come insegna del resto l’esempio cinese), che non ha detto “pazienza se qualcuno muore”, come The Economist, come il Boris Johnson degli inizi della pandemia, come il celebrato governo svedese, o come quel cinico imprenditore italiano che recentemente si è dovuto scusare sostenendo che non era quello il suo pensiero, quando invece non solo era il suo, ma era purtroppo quello di molti altri (dello stampo di coloro che esultavano dopo il terremoto dell’Aquila): una voce dal sen fuggita che fa il paio con il tweet del Presidente della Liguria del 1° novembre, quando parlò degli anziani vittime del Covid come di persone “non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese”. E l’insegnamento che ci è venuto da Berlino è tanto più importante in quanto ci viene da un Paese e da un governo che purtroppo, negli ultimi anni, hanno perso molta della loro credibilità quando, soprattutto nella crisi greca ma non solo, sono sembrati anteporre il rigore economico ad ogni altro valore. L’atteggiamento umanitario della cancelliera tedesca ci riporta ai tempi , ormai lontani, dello Schroeder oppositore dell’ingiusta guerra di Bush  jr. in Iraq. E conferma i risultati dello studio reso noto in agosto del Center for Economic Policy Research e del World Economic Forum, secondo cui i Paesi governati da donne hanno gestito meglio la pandemia. Gli altri si sono poi accodati. A De Luca no, agli scienziati no, ma alla Merkel sì. E’ vero che questo conferma la realtà, per molti versi non auspicabile, di un’Europa a guida tedesca. Ma, almeno per stavolta, meno male che Angela c’è.

21 dicembre 2020

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