Trump, presidente plebiscitario

14 Gen 2020

Nadia Urbinati Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Il modo in cui è stata scatenata la crisi Usa-Iran, in seguito all’attacco americano che ha ucciso Qassem Soleimani ha messo in luce il potenziale rischioso del populismo al potere. Un fatto non identificabile con il ruolo del presidente nel sistema politico americano. È noto, infatti, come tra la Casa Bianca e il Congresso vi sia più o meno la stessa relazione che c’è tra i separati in casa: condividono lo spazio comune della decisione politica con reciproca diffidenza e un equilibrio dinamico, difficile da mantenere.

L’altalena tra egemonia presidenziale ed egemonia congressuale ha fatto la storia del Paese. Sul protagonismo dell’ospite della Casa Bianca sono stati versati fiumi di inchiostro e non tutti gli studiosi sono convinti che si tratti di un fenomeno negativo, al contrario. Il protagonismo di Abraham Lincoln, che ha inaugurato un uso “dittatoriale” delle sue prerogative sospendendo l’habeas corpus (si era in guerra civile e la salvezza dell’Unione era il bene supremo), ha avuto altri momenti d’oro. L’ultimo per rilevanza in un’età drammatica, fu quello di Franklin Delano Roosevelt che sfidò la Corte Suprema per salvare il suo New Deal. In genere, l’egemonia presidenziale ha coinciso con tempi di crisi drammatica, economica e militare.

Quel che di nuovo registriamo in questi ultimi decenni è la creazione ad arte delle crisi – perfino gravissime, come la guerra – con lo scopo di gestire l’opinione pubblica in maniera diretta e costante. Ricordiamo il film Wag the Dog (in italiano Sesso e Potere) proiettato prima della rielezione di Bill Clinton, con lo spin-doctor che si serve di un regista di Hollywood per creare ad arte una guerra allo scopo di coprire uno scandalo sessuale del presidente. Il film con Robert De Niro uscì nel 1997 e Clinton si preparava alla campagna elettorale sotto la pressione di impeachment per la relazione sessuale con Monica Lewinsky.

Circola in questi giorni la prima pagina del New York Times del 17 dicembre 1998 con da un lato la faccia di Clinton sotto impeachament e dall’altro quella del bombardamento in Kosovo. Il potere del presidente non cambia: è molto ampio, soprattutto quando si tratta di questioni militari e internazionali. È stabilito dalla Costituzione. Tanto che alcuni studiosi hanno parlato di “bonapartismo” ante litteram. Ma c’è nel nostro tempo qualcosa di nuovo, che pertiene alla natura della leadership non tanto presidenziale, ma populista. Non si tratta di sovranismo (un termine che negli States non è usato ed è anzi poco capito, visto che la loro affermazione di sovranità statale non è mai stata messa in questione) e nemmeno di nazionalismo (che non è mai venuto meno, neppure con la presidenza di Barack Obama). La questione pertiene alla forma di comunicazione extra-istituzionale tra il presidente e il popolo.

Il problema sta non nella natura della presidenza, ma nella sua radicale e privata personalizzazione consentita dai nuovi mezzi di comunicazione. La presidenza populista nell’era di internet è una miscela di due fattori sommamente arbitrari: il carattere del leader e l’impulso a cercare il consenso diretto. È la sovranità dell’audience a rendere l’egemonia presidenziale pericolosamente esposta al carattere del leader e alle sue ragioni di bottega, e a sfidare la capacità di controllo da parte delle istituzioni.

Quando Obama divenne presidente, chiese ed ottenne di avere diretto accesso ai social, di usare il suo iPhone come un ordinario cittadino. Si trattò di un cambiamento epocale. Perché il plebiscitarismo si apprestava a diventare qualcosa di diverso, alimentando una campagna elettorale permanente che poteva mettere in ombra il Congresso e sbilanciare i poteri in una forma inquietante e, come abbiamo verificato in questi giorni, pericolosa per il mondo intero.
Altre volte in passato il presidente americano ha avuto poteri ampi e larghissima visibilità, ma mai prima d’ora la sua gestione privata dei social ha avuto tanto impatto nella determinazione dell’uso del potere militare. Questo aspetto merita attenzione critica e ci interroga sul bisogno che le democrazie hanno di armarsi di nuovi strumenti procedurali e istituzionali per contenere non tanto il potere decisionale, quanto il rapporto diretto con il pubblico da parte di chi lo esercita. Il quale non è un ordinario e privato cittadino.

la Repubblica, 13 gennaio 2018 

Politologa. Titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. Come ricercatrice si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo e delle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Collabora con i quotidiani L’Unità, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano e con Il Sole 24 Ore; dal 2019 collabora con il Corriere della Sera e con il settimanale Left.

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