Serve un partito

01 Mar 2019

Nadia Urbinati Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Le primarie generano fazioni mentre al Pd servirebbero pluralità di idee, proposte e coraggio. Conteranno le file ai gazebo: se la partecipazione al voto sarà bassa, la maggioranza non avrà forza.

Il segno di queste primarie del Pd potrebbe essere reso con questa alternativa: o restaurazione o rinnovamento. Primarie pesanti. Il ragionamento che ci porta a comprendere il senso di questa alternativa richiede, prima, una riflessione sul metodo.

Le primarie non sono il metodo ideale per eleggere un segretario di partito. Generano fazioni mentre un partito avrebbe bisogno di pluralità di idee e di proposte. Per questo, la premessa a ogni commento su quel che sarà auspicabile che sia il Pd dopo domenica 3 marzo non può che partire da questa considerazione critica sul suo Statuto: il Pd è nato con un atto plebiscitario e di plebisciti può morire. E non perché la democrazia sia la sua rovina; ma perché la democrazia non può essere risolta nell’andare alle urne. Dare l’assenso a nomi o cordate è come firmare una cambiale in bianco e poi andare a casa. Senza processo deliberativo comune, senza responsività dei leader di fronte non ai gazebo, ma al partito e ai suoi organismi, la democrazia e il partito sono poca cosa. In fondo, la critica che si fa ai 5stelle vale anche per il Pd: identificano la democrazia con il chiamare a raccolta gli iscritti (e nel caso del Pd addirittura tutti i cittadini di buona volontà) per esprimersi su proposte già definite, per fare atto di lealtà e di fede. Anche a causa di questa interpretazione impoverita ed emotiva della democrazia il Pd è nato gracile e non ha mai preso consistenza. Anzi, crescendo ha aggravato il suo rachitismo. Tutto quel che produce, lo si è visto dopo una campagna elettorale per le primarie durata un anno, sono candidati che battagliano tra di loro e la paralisi politica dell’opposizone – un’opposizione fatta di slogan pubblicitari a rimorchio delle azioni del governo, senza proposta e spesso con la testa rivolta al passato recente dove, per una parte non piccola del partito, sta la luce, la via, la verità.

Il timore è che chi vince – ma soprattutto se vince Nicola Zingaretti che è il meno omologato a quella parte che ha la testa retroflessa – troverà un partito non meno litigioso di prima. Riuscirà il vincitore a risolvere questo problema, e rimuovere il macigno della divisione che è di fatto solo basata su personalismi che cercano audience? Riuscirà il Pd a riacquistare lo stile della politica ragionata e abbandonare la retorica populista che gli ha impresso la leadership renziana? Riuscirà a lanciare il partito nel paese, nelle regioni, nei comuni? Riuscirà a fare discutere, a spiegare e chiarire la sua posizione su come battere questo governo e che cosa fare? Riuscirà a recuperare una pratica di democrazia deliberativa che parli di problemi, che sia ispirata da una cultura politica riconoscibile? Di questo ci sarebbe un enorme bisogno in un paese che da Tangentopoli in qua è stato un laboratorio permanente di populismi e di politica dell’audience.

Il sospetto forte è che il vincitore, soprattutto se vuole dare segni non timidi di discontinuità, abbia vita difficile. E il vecchio – quello che ieri parlava di “rottamazione”- sarà armato e corazzato a buttare sul campo l’argomento della legittimità. Ecco il senso dell’alternativa: o restaurazione o discontinuità. Il voto conterà poco e nulla. Conteranno le file ai gazebo. Se la partecipazione al voto sarà bassa, la maggioranza non avrà forza. Perché nelle compagini plebiscitarie conta l’affluenza al voto più che la maggioranza numerica dei voti. Questo è il rischio di fronte al quale sta il Pd alla vigilia di queste primarie: il rischio è che le primarie non saranno conclusive della campagna elettorale.

A fronte di questo rischio, dovrebbe essere sfoderata l’arma classica della virtù politica: il coraggio. Coraggio di dare immediatamente il segno del rinnovamento, mettendo mano alla struttura organizzativa; il coraggio di introdurre modifiche allo Statuto che mettano fine alla naturale vocazione plebiscitaria del partito, per dare ossigeno ai congressi e all’abitudine di parlare di politica ragionando insieme, per mettere in atto quella struttura di case del sapere – o think tank — che devono servire a studiare, elaborare, dare dignità alla riflessione politica. Che rendano il partito capace di attrarre le varie e numerose associazioni e forze civiche, che ci sono nel paese: un partito magnete, che riconquisti la società perché sa riconoscere i problemi di disagio generati dalla diseguaglianza economica e sociale: il degrado culturale, l’infelicità pubblica provocata dal razzismo, l’umiliazione sociale nella quale vivono larghe zone del paese e parti della popolazione. Un partito che sappia essere partigiano della democrazia, che denunci quel che confligge con i principi democratici e ricostruisca un progetto politico per il Paese e l’Europa. Che riconquisti protagonismo come partito. Sarebbe questo il rinnovamento di cui c’è bisogno.

 

Politologa. Titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. Come ricercatrice si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo e delle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Collabora con i quotidiani L’Unità, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano e con Il Sole 24 Ore; dal 2019 collabora con il Corriere della Sera e con il settimanale Left.

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