Chi aiuta i giudici e chi scrive per frenarli

02 Mag 2018

Paolo Mieli è persona colta e stimabile e quando scrive va sempre letto con attenzione. Nel recente “Il processo (infinito) allo Stato” (Corriere della Sera, 25 aprile), afferma che la sentenza sulla trattativa con la mafia ripropone il problema dello “Stato” e di un senso comune ostile. Tema delicato. Spiace non condividere aspetti essenziali del testo.
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Scrive: da Piazza Fontana “si è creduto di individuare lo zampino dello ‘Stato’ dietro qualche colpa di questo o quel funzionario Ma nomi riconducibili ai ‘massimi vertici’ non ne sono venuti fuori. Mai”. È l’assunto iniziale, dopo il quale afferma che il direttore del Fatto sbaglia, sulla Trattativa Stato-mafia, perché dai suoi testi si dovrebbe dedurre che la sentenza di Palermo “punta il dito accusatore contro Amato e Ciampi, i quali, ‘si piegarono'” alla Trattativa.
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Di più: poiché “i regali a Cosa Nostra” continuarono sotto i governi di centrodestra e centrosinistra – dice – “anche Berlusconi e Prodi sono sistemati”. Tutto si può dire tranne che l’editoriale non sia brillante. Lo stile tuttavia non veicola sempre la verità. Mieli capisce, a un certo punto, che la sua particolare ricostruzione dei fatti – non ci sono prove di responsabilità politiche per Portella della Ginestra (1947), il piano Solo (1964), Piazza Fontana (1969) – cozza contro il celebre testo di Pier Paolo Pasolini (che accusa anche se non ha le prove) e decide di fare i conti, dopo Travaglio, col poeta. Infatti.
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Dopo il dovuto omaggio, sottolinea gli effetti negativi del suo articolo: “Forse non immaginava, Pasolini, che la magistratura italiana avrebbe annoverato una gran quantità di ‘pasoliniani’ i quali non avrebbero esitato a puntare l’indice contro ‘alti vertici dello Stato’, senza poi sentirsi in obbligo di circostanziare le accuse”. È così? A noi risulta che in tanti processi le accuse (e le sentenze) siano molto circostanziate.
Eccome! In ogni caso, l’editoriale difende un’astratta idea di Stato; e critica duramente quanti – giornalisti, scrittori, magistrati – hanno indicato una realtà meno idilliaca.
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Mieli compie una grande operazione giustificazionista di tutti i politici, contro chi “parla senza prove”: ecco così bacchettati il direttore del Fatto, Pasolini e (aggiungo) Eugenio Scalfari – denunciò il piano Solo sul quale, ancora una volta, Mieli minimizza. Ora, presentati in chiave negazionista i fatti, cosa resta? Resta l’amaro in bocca di vedere una grande penna del giornalismo italiano ridimensionare decenni di stragi impunite. Neanche il sospetto, il timore, il dubbio – almeno quello – che le stragi siano impunite proprio perché i mandanti erano/sono molto in alto e con troppe coperture; neanche il dubbio che – dopo i pentiti di mafia – manchino i “pentiti di Stato” perché “nessun ministro della Giustizia, dell’Interno e della Difesa ha mai voluto indagare su quel che accadde dietro le quinte delle stragi”; neanche il ragionevole dubbio che per stanare il livello politico – “i mandanti ‘esterni’ alla mafia” – ci sia bisogno del forte sostegno dell’opinione pubblica, dei giornali e non di articoli che, sia pur con stile, invitino a sopire, tacere.
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Per cercare la verità persone come Nino Di Matteo rischiano la vita. Ogni giorno. Nel libro Collusi (Rizzoli), il magistrato ricorda l’incontro col collaboratore di giustizia Cancemi: “Dottore, lo sa cosa mi ripeteva Riina? ‘Senza i rapporti con il potere, Cosa Nostra sarebbe solo una banda di sciacalli’.
Se non lo capite, non potrete mai contrastarla” (p. 20). Ho scoperto in quella occasione – dice Di Matteo – “il vero volto della mafia”: la sua potenza sta nel legame con la politica. Ecco. Il legame con la politica: con la sentenza di Palermo comincia a emergere qualcosa, bisogna aiutare i magistrati ad andare avanti, non scrivere per frenarli. Noi preferiamo chi denuncia – e i poeti che “vedono” e anticipano i tempi – ai giornalisti che, anche dopo una sentenza, rifiutano di guardare la realtà.
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Il Fatto Quotidiano, 28 aprile 2018

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