Montalbano in tv, apocalittico e integrato

09 Mar 2017

Il successo strepitoso del “Commissario Montalbano”, con un inedito 44,1% di share e 11 milioni 268mila telespettatori, è un omaggio postumo ad Umberto Eco. Nel notissimo “Apocalittici e integrati” (1964) il compianto pensatore criticava la suddivisione tradizionale tra i tre livelli culturali –alto, medio, basso- sottolineando intrecci e contaminazioni costanti. Un pubblico così vasto come quello toccato dalla serie tratta dai romanzi di Andrea Camilleri significa che è stata raggiunta la “mediana perfetta” tra i diversi protagonisti della fruizione: nord, centro, sud, donne, uomini, giovani, anziani,con i differenti gradi di scolarizzazione.

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La sintesi tra gli apocalittici e gli integrati. Si può analizzare da vari punti vista il caso Montalbano, l’essere diventato un evento mediale figlio di una fortunata commistione tra il testo e la sua rappresentazione. Rimane il fatto che l’accorta miscela tra produzione e consumo è una lezione davvero interessante, che ci racconta molto anche dell’Italia televisiva, vogliosa in tanta parte di avere offerte né omologate né trash. Tuttavia, il tema ha origini lontane.

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La poliedrica personalità di Eco è stata approfondita da un angolo di visuale piuttosto inedito dal bel volume di Claudio e Giandomenico Crapis (Umberto Eco e il Pci, Reggio Emilia, 2016, ed. Imprimatur), vale a dire il rapporto “dialettico” tra il semiologo e il maggior partito della sinistra. Il libro, presentato qualche sera fa a Roma insieme ad Alberto Abruzzese e Furio Colombo, mette il dito nella piaga. Le culture dell’universo comunista –pure nella democratica declinazione italiana- non hanno superato la dicotomia tra alto e basso, arrogandosi il diritto di introdurre gerarchie spesso artificiose come se negli essere umani pensanti non convivessero strati e sentimenti complessi. Andiamo ad una mostra di pittura astratta con spirito militante, ma ci rigeneriamo ascoltando un brano di musica pop. E la televisione, confinata dalle élite della sinistra a puro intrattenimento di scarso peso (ci ricordiamo l’imbarazzante debolezza sul conflitto di interessi di Berlusconi?), ha in verità plasmato la coscienza diffusa più delle hegeliane “arti belle”.

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Il 5 e il 12 ottobre del 1963 “Rinascita” –il settimanale del Pci- ospitò un saggio in due puntate di Eco proprio attorno a tali argomenti. “…il fatto è che la cultura di sinistra non ha ancora fatto un sol passo per discutere la natura dell’emozione estetica e le funzioni dell’arte in una nuova situazione storica e sociale…” Benché “…ai Festival dell’Unità si suonano i dischi di Rita Pavone, compiendo in tal modo un gesto automatico di antropologia culturale: si riconosce l’esistenza di un altro universo di valori. Ma poiché la cultura umanistica ufficiale lo ha declassato come universo di disvalori, non ne viene tentata alcuna reale operazione di acquisizione…”

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Al saggio critico l’ortodossia rispose con il ricorso ai sacri valori del marxismo della vulgata. Fece eccezione Romano Ledda e temperò gli strali del partito l’allora responsabile culturale Rossana Rossanda, con un lungo e rigoroso articolo che usava criteri interpretativi che correvano con raffinatezza ai confini della linea ufficiale. Comunque, il distacco dagli stili espressivi popolari e il sospetto verso il coraggio delle avanguardie rimasero, pur in forme aggiornate, una costante. Non a caso la lotta della stagione analogica è stata persa malamente, con esiti amari e penosi.

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Ora però, con l’era digitale, perseverare diventa sì diabolico. Ci vuole Montalbano.

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il manifesto, 8 marzo 2017

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