Oltre il successo del 4 dicembre 2016

05 Gen 2017

Nadia Urbinati Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

1. La vittoria del NO

La vittoria del referendum costituzionale è stata un’impresa straordinaria, la prova del potere democratico, del filo invisibile che lega tante singole volontà in un progetto collettivo e per uno scopo comune; un sentire comune che si fa strada attraverso il contributo di ciascuno.

La vittoria del 4 dicembre è ancora più straordinaria se si considera che non si è appoggiata sull’organizzazione dei partiti (contrariamente a quanto accaduto con il referendum del 2006). Come sappiamo, l’organizzazione partitica è essenziale sia per la selezione delle candidature e la gestione delle elezioni dei rappresentanti sia per il funzionamento della democrazia parlamentare. Il referendum è tuttavia diverso, e per la sua semplicità binaria non richiede macchine organizzative complesse; sarebbe sufficiente, in teoria, un’opinione informata e imparziale. Questa disposizione orizzontale è peculiare alle forme referendarie … E tuttavia, il referendum del 4 dicembre è stato un fatto unico, per l’esito inaspettato e le sue proporzioni.

E’ stato anomalo all’origine, per come è stato gestito e orchestrato. La proposta di revisione e poi la campagna hanno mostrato uno sbilanciamento di potere formidabile: tenuto insieme da un partito di maggioranza con al suo fianco in maniera più o meno esplicita le istituzioni dello Stato, a partire ovviamente dal Governo e però anche, seppure in forme meno pesanti, la Presidenza della Repubblica, alcuni esponenti della Corte Costituzionale, la maggioranza delle forze in Parlamento, gli organi del governo regionale e comunale di molte parti del Paese (soprattutto al Centro-nord); in aggiunta al mondo dell’opinione: gli organi di informazione, della carta stampata nazionale (tutti i quotidiani ad eccezioni di pochissimi), delle testate radiotelevisive statali. Insomma, un potere di fuoco che per la sua larghezza di mezzi e forze e la sua debacle fragorosa assomigliava ad una Linea Gotica. Una partigianeria di Stato e del suo establishment come si era raramente vista nella nostra storia repubblicana.

Il Governo ha usato soldi pubblici per scopi propagandistici con misure economiche ideate per conquistare quelle fasce di elettorato potenzialmente più insoddisfatto delle politiche governative. Una profusione si risorse pubbliche per un obiettivo che, per ammissione dello stesso protagonista, è stato fazioso fin dal principio.

Contro questa forza enorme e arrogante, i cittadini hanno opposto la loro voce: con scarsa organizzazione, infimi mezzi economici, associazioni caparbie, come Libertà e Giustizia, parte dei sindacati, l’Anpi, due quotidiani impegnati a pieno tempo, e in aggiunta a vari blogs, social media e, soprattutto i rapporti faccia-a-faccia ai banchetti: forme artigianali di azione politica che hanno riportato alla mente le campagne referendarie sul divorzio e sulla 194, benché allora il ruolo dei partiti politici fu indispensabile (partiti di partecipazione e radicati).

Questa campagna è stata diversa e unica, dunque; sia per l’impari forza dei mezzi schierati e soprattutto perché ha mostrato il potere vivo della cittadinanza orizzontale, senza e fuori dei partiti: democrazia auto-convocata, auto-organizzata, auto-gestita, auto-finanziata, autofabbricata nella retorica, auto-sofferta. Sono nati comitati per il NO numerosi e spontanei su tutto il territorio nazionale (intorno a 800 senza contare quelli all’estero), riempiendo il vuoto dei partiti, i quali hanno dimostrato la loro inguaribile debolezza di attrazione partecipativa a fronte del forza, anche finanziaria, che deriva loro dall’essere incardinati nelle istituzioni. Senza organizzazioni e soldi pubblici, noi cittadini abbiamo vinto.

2. …la sindrome del “dopo”

Nella vittoria NO è stata espressa un’esigenza: quella di avere luoghi e forme di partecipazione. La cittadinanza referendaria ha messo in luce, quindi, anche il vuoto della politica partitica, l’agonia dei partiti-organizzazione del consenso e della partecipazione. E’ questo l’aspetto forse più dirompente: la debolezza dei partiti e insieme il bisogno di forme di aggregazione, con l’esito che, dopo la vittoria del 4 dicembre resta un senso di vuoto in molti di coloro che hanno dato tutto il tempo libero e la passione nei lunghi mesi di campagna referendaria. Chi ha dato corpo e anima ora si sente come orfano di referendum; e forse molti restano in attesa di schierarsi per i prossimi possibili referendum, quelli contro la deregolamentazione del lavoro, promossi dalla CGIL. La tentazione di rendere permanenti i Comitati del No, di farne come dei partiti c’è. Ed è, Paul Ginsborg ha perfettamente ragione, una tentazione da non coltivare; anzi da spegnere sul nascere.

LeG non potrà, se questi referendum verranno indetti, non schierarsi, poiché si tratta, come molte volte abbiamo ripetuto con Gustavo Zagrebelsky, di difendere la Costituzione mettendola in pratica, opponendosi al suo smantellamento nei fatti. Non c’è modo più subdolo e pericoloso per delegittimare la nostra democrazia che rendere la sua Carta una vuota litania di diritti e doveri.

E però, non dobbiamo pensare che la cittadinanza referendaria debba diventare il modus vivendi della politica attiva, che essa si debba stabilizzare come un modo d’essere di una parte larga di cittadini che non hanno altri luoghi politici di riferimento.

3. La vocazione di cittadinanza attiva: oltre il successo del 4 dicembre 2016.

Scrive Paul che LeG non è né deve aspirare a diventare un partito. Ha ragione. E, aggiungerei, LeG non dovrebbe nemmeno mostrare di sé una faccia sola, quella referendaria. Ci sono momenti nei quali i referendum ci devono impegnare; ma sappiamo che la nostra vocazione non si esaurisce qui. Noi non siamo un comitato per i referendum.

Paul ha ragione: la presenza democratica dell’associazionismo è il bene primario di LeG, un bene per sé e un dono che fa a tutta la collettività, stimolando il pensiero critico, educando praticamente all’intransigenza sui principi fondamentali della nostra democrazia. E lo deve fare aprendosi a nuove forze, ai giovani che sono stati i grandi protagonisti della vittoria del 4 dicembre (Paul ha ragione sulle quote di iscrizione, che per i giovani devono essere simboliche).

A partire da queste riflessioni, propongo alcuni obiettivi, in parte già suggeriti da Paul:

1) Le scuole di politica. Riprenderle subito, a partire dal nuovo anno, e lasciando dove possibile che siano i giovani gestirle (e anche a relazionarvi; molti di loro sono universitari e desiderosi di apprendere l’arte del discorso pubblico). Stimolare le scuole di politica nelle regioni del Sud, dove LeG mostra un esemplare vigore (forse l’assemblea annuale di LeG dovrebbe essere prevista al Sud; faccio anzi la proposta di pensare a una rotazione in modo che le tre parti del paese siano di volta in volta sede dell’assemblea annuale di LeG).

2) Circa i temi sui quali LeG dovrebbe concentrare la propria attenzione conoscitiva e critica, penso come Paul che essi debbano essere in primo luogo quelli legati al lavoro, non solo in vista dei possibili referendum ma prima di tutto perché la nostra democrazia ruota come ben sappiamo intorno alla cittadinanza sociale e al lavoro (tra l’altro nel 2017 la Costituzione compie gli anni e riflettere criticamente su “democrazia e lavoro” è un ottimo modo per festeggiarla). Come è cambiato il lavoro e come coniugare gli articoli relativi al lavoro e agli obblighi sociali verso i lavoratori: questi dovrebbero essere temi centrali.

3) In relazione al lavoro il secondo grappolo di problemi è connesso all’immigrazione. Propongo che intorno a questo tema, e a quello dei rifugiati, si concentri un’altra parte della nostra attività – oltretutto nel 2017 cade anche l’anniversario del Trattato di Roma con il quale il diritto di movimento (per scopo lavorativo prima di tutto) diventò il primo diritto comunitario. L’Unione Europea è il terzo tema che fa da coronamento a quello del lavoro e del diritto di movimento. Le sorti della UE – secondo Romano Prodi legate ormai a un filo tenue – non possono non occuparci e preoccuparci. L’Europa che oggi si contende l’ideologia “del popolo europeo” è quella nazionalista. I paesi dell’Est Europa si sono auto-candidati alla difesa dei “sacri confini dell’Europa cristiana”, e oltre a erigere muri di filo spinato riformano le loro costituzioni in senso autoritario e populista; il nuovo nazionalismo non vuole chiudersi a riccio dentro gli stati, come il nazionalismo prima dell’EU, ma si propone come leader di un’idea di Europa che è anti-cosmopolita e essa stessa nazionalista. Due visioni di Europa si contengono oggi, e purtroppo quella dei diritti non ha grandi campioni, non ha difensori forti e convincenti anche perché troppo dipendente dagli esecutivi degli stati-membri e dalla loro improvvida alleanza acritica con la logica delle banche e del neo-liberalismo.

Milano, 20 Dicembre 2016

(*) Presidente di Libertà e Giustizia

Politologa. Titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. Come ricercatrice si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo e delle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Collabora con i quotidiani L’Unità, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano e con Il Sole 24 Ore; dal 2019 collabora con il Corriere della Sera e con il settimanale Left.

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