«Cari emeriti, abbiamo deciso di dedicare uno spicchio del nostro 25 aprile a scrivervi…». Si apriva con queste parole l’articolo pubblicato sulla prima pagina dell’Unità di ieri, a firma Elisabetta Gualmini e Salvatore Vassallo, con il titolo «Cari Professori del No…». Imperdibile, per molti motivi, visibili e invisibili. Per quello che c’è scritto e per quello che significa.
I due autori vantano uno spicchio di notorietà, almeno presso gli addetti ai lavori. Lui è professore di Scienza politica comparata all’università di Bologna ed è stato deputato del Pd dal 2008 al 2013: è stato uno dei fondatori del partito con Walter Veltroni e propose alla fine del 2007 un modello di legge elettorale di ispirazione spagnola, passata alle cronache come il Vassallum. Lei è professoressa di Scienza politica, studiosa del Movimento 5 Stelle prima maniera, anche lei impegnata in politica: oggi è vice-presidente della regione Emilia-Romagna in quota Pd.
Li conosco di persona e li ho sempre stimati. Gualmini e Vassallo sono due professori. Due intellettuali. Due che dovrebbero avere familiarità con l’argomentare e il contro-argomentare sottile e educato. Due dichiarati sostenitori di Matteo Renzi e delle sue riforme che per formazione, cultura, conoscenze avrebbero tutti i mezzi per aiutare il premier su un fronte per lui decisamente sguarnito: la battaglia culturale, il think-tank che non è soltanto un altro modo di organizzare una lobby di amici ma è produzione di temi, idee. I mitici, orrendi, bistrattati contenuti.
Vassallo e Gualmini decidono di dedicare il loro 25 aprile a polemizzare con i 56 giuristi che hanno firmato qualche giorno fa un documento sulla riforma costituzionale. Tra i promotori ci sono ex presidenti della Corte costituzionale, maestri come Gustavo Zagrebelsky, Valerio Onida, Francesco Paolo Casavola, Franco Gallo, Enzo Cheli, Fulco Lanchester, personaggi che notoriamente hanno militato su opposte correnti politiche o giuridiche, Roberto Zaccaria e Antonio Baldassarre, Alfonso Quaranta e Paolo Maddalena, Ugo De Siervo e Lorenza Carlassare, Andrea Manzella e Luigi Mazzella… Il meglio della cultura costituzionale italiana. Un documento lungo e complesso, in cui i firmatari premettono di non essere «fra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo». E tuttavia muovono una serie di critiche, puntuali, sul testo della riforma Renzi-Boschi che a ottobre sarà sottoposto a referendum popolare. Come voteranno i professori? La risposta arriva soltanto nelle righe finali: «Pur essendo noi convinti dell’opportunità di interventi riformatori che investano l’attuale bicameralismo e i rapporti fra Stato e Regioni, l’orientamento che esprimiamo è contrario, nel merito, a questo testo di riforma».
Il testo si può discutere e contestare. Ma rappresenta, finora, il primo e unico strumento di dibattito che si sottrae a quello che in molti stanno provando a trasformare in un giudizio di Dio. I renziani pensano che la riforma della Costituzione sia l’alfa e l’omega della Repubblica italiana, la svolta epocale, tutto parte e finisce lì. Gli anti-renziani, al contrario, vedono nella riforma Renzi-Boschi la deriva autoritaria, il putinismo, il fascismo che avanza. E entrambi i fronti si preparano nei prossimi mesi ad alzare i toni, per opposti opportunismi: il sì urlato rafforza il no isterico, e viceversa. Ma il referendum sull’ingresso dei consiglieri regionali al Senato al posto dei senatori eletti e l’eliminazione del Cnel non è Armageddon. Come spiegano i 56, con motivazioni laiche, fredde, riluttanti ad arruolarsi in una guerra di religione.
Gualmini e Vassallo potrebbero rispondere ai costituzionalisti «nel merito», punto per punto. Ma hanno deciso di dedicare ai colleghi soltanto «uno spicchio» del loro 25 aprile, non un minuto di più. E dunque meglio lasciar perdere la musica e dedicarsi ai suonatori. Non importa il documento, interessano i firmatari. «Ci scuserete se abbiamo fatto i conti sulla vostra età, che in media è di 69 anni», scrivono i due politologi renziani. E già questo conto richiede un certo impegno: trovare la data di nascita di 56 firmatari, calcolare l’età, sommare, dividere… Ci immaginiamo Gualmini e Vassallo su internet mentre si dividono i nomi, come si fa con gli esaminandi all’università, tu ti occupi di quelli dalla A alla L, io dalla M alla Z, mentre lo spicchio del loro 25 aprile si assottiglia inesorabilmente.
Una volta azionata la calcolatrice i due ci prendono gusto. E scoprono che – ben nascosto tra i 56 – c’è un sottogruppo, anzi, un supergruppo. «Quattordici di voi sono stati giudici costituzionali, ben dieci hanno goduto delle vorticose rotazioni alla presidenza della Consulta legate all’età, emeriti con le annesse prerogative. In questo supergruppo di supersaggi l’età media supera gli 81 anni. Siete tutti invidiabilmente lucidi…».
I firmatari, per Gualmini e Vassallo, hanno la colpa di essere vecchi. E pure privilegiati, con le loro pensioni da ex presidenti della Consulta. Con le stesse motivazioni Gualmini e Vassallo potrebbero aggiungere che Giorgio Napolitano, che ha quasi 91 anni (non in media, ma da solo), non dovrebbe intervenire sul referendum. O che l’attuale giudice costituzionale Giuliano Amato dovrebbe astenersi dal prendere posizioni pubbliche di qualche tipo. Ma sarebbero considerati concetti rozzi, volgari, degni della più becera anti-politica, i toni che il Pd rimprovera sempre al Movimento 5 Stelle. E dunque Gualmini e Vassallo non li usano. Sono ragazzi civili, loro. Usano argomenti raffinati, sofisticati, loro. Si fermano agli ultra-ottantenni, «invidiabilmente lucidi», agli ex in pensione che non possono più influire sulla carriera di nessuno.
Sistemata l’anagrafe, i due professori passano al vero capo di accusa nei confronti dei giuristi ribelli. Il loro proporsi come «un empireo, nobili coltivati in colte letture» che disprezzano «Matteo-il-plebeo». Lui, Renzi, «schifa i professoroni, i loro convegni e le loro tartine. Non li invita a cena, non li promuove nemmeno, non sente il bisogno di convocare un Concilio di emeriti prima di proferire verbo sulla materia (come se non fossero bastati tutti i precedenti, dalla Bicamerale Bozzi del 1982 alla Commissione dei Saggi del 2013)». Brutti tipi questi costituzionalisti! Oltre che vecchi e privilegiati sono pure dediti a «colte letture», a «convegni e tartine», e qui la coppia Gualmini-Vassallo lascia il posto all’immaginario del duo Salvini-Trump, che però almeno ha il buon gusto di non scrivere sul quotidiano fondato da Antonio Gramsci. E lasciamo perdere che in quelle commissioni di falliti hanno provato a riformare le istituzioni altri maestri come Gianfranco Pasquino o purtroppo scomparsi come Pietro Scoppola e Roberto Ruffilli. E sorvoliamo anche su altre squisitezze («uno studente del primo anno verrebbe inchiodato alla banalità delle vostre contraddizioni», bacchettano con sadismo i due ricordandosi all’improvviso di essere professori anche loro).
Gualmini e Vassallo concludono entusiasti, come in coro da stadio: «Noi diciamo sì. E poi Sì». Manca il punto esclamativo, «il cazzotto che sottolinea il concetto», come diceva Francesco Storace. Ma, insomma, si è capito. E si è capito che anche un articolo come questo rivela involontariamente uno dei problemi più urgenti di questa stagione renziana. L’assenza non solo di una nuova classe dirigente politica (ne parla oggi Roberto Saviano su “Repubblica” sull’inchiesta in Campania), ma anche di una nuova leva intellettuale. Intellettuali veri: capaci cioè di indicare un punto di vista non scontato, con un certo tasso di anticonformismo, con il gusto di restare fuori dalle curve, dalle tifoserie da social network, per strepitare più forte degli altri. E poiché so bene che Gualmini e Vassallo sarebbero capaci di ben altre argomentazioni mi chiedo il perché di questo progressivo scivolare nella banalizzazione, nel talk-show perenne che viene esorcizzato a parole dal premier e interiorizzato nei fatti perfino da chi per professione dovrebbe aiutare a pensare.
A questo metodo, caro Vassallo, cara Gualmini, due professori come voi dovrebbero dire, per usare il vostro stile, «no. E poi No». Fareste un migliore servizio alla vostra causa e alla parte che legittimamente volete rappresentare. E non per mettersi sopra, per sentirsi superiori. Perché il plebeo ha la sua nobiltà, scrivereste voi e con ottime ragioni, e di una élite altezzosa e di una casta di illuminati non se ne può più. Ma l’intellettuale che a caccia di consenso si trasveste da populista perde ogni credibilità. E della sua funzione, del suo ruolo non resta più nulla. Neppure uno spicchio.
damilano.blogautore.espresso.repubblica.i t, 28 aprile 2010
Cari Professori,
uscite dalla curva, ssendete in campo: c’è una Cittadinanza smarrita che ha bisogno di essere presa per mano per essere condotta fuori dalla palude della mediocrità.
A PROPOSITO DI REFERENDUM
A me piacerebbe che i comitati promotori di qualsiasi referendum, si domandassero se la Costituzione consente un migliore investimento dei milioni di Cittadini-elettori convocati al seggio referendario dalle loro iniziative.
E cioè: la storia e la cronaca ci raccontano che è assai difficile e raro che un referendum soddisfi la volontà dei promotori, sia per il quorum e l’astensionismo abituale, sia per la dispari competizione verso il potere costituito che dispone di mezzi massmediatici sempre enormemente sbilanciati a suo favore, sia per la bassa qualità media dell’elettorato che, secondo l’OCSE, al 47% soffre di analfabetismo funzionale.
E allora perchè invitare i Cittadini rassegnati nelle trincee referendarie, negative e difensive per antonomasia, quindi poco entusiasmanti, ma molto impegnative dalla raccolta firme al dover andare al seggio in 25 milioni, col rischio altissimo di finire seppelliti per l’impari competizione?
E venendo al più recente ref. NO TRIV che ha portato al seggio inefficacemente 16 milioni di elettori, cosa sarebbe accaduto se fossero stati coinvolti in una iniziativa propositiva, assertiva, affermativa, con l’esercizio congiunto e sinergico degli articoli 50 e 71 che consentono la democrazia diretta propositiva, che diventerebbe “impositiva” se ad attuarla fosse quella “sovranità popolare realizzata”, non solo enunciata? Impositiva verso un Parlamento suddito e delegato quindi subalterno 2 volte?
Inviterei i dottori del diritto costituzionale a non cercare i motivi del diniego assolutamente facili da trovare per la loro competenza specifica, ma di cercare invece le vie possibili, anche tenendo conto che il popolo, pur sovrano, non è affatto dottore, ed esso può concedersi un’interpretazione meno rigorosa della lettera e un riferimento più elastico allo spirito originale ed autentico della Carta, che certo non è quello di calpestare la volontà popolare cmq espressa.
Nella mia semplicità, sto approfondendo il tema da tempo e sono disponibile per approfondimenti se mai qualcuno avvertisse l’opportunità di farlo, per cercare altre vie meno votate alla sconfitta…
Io ho letto l’articolo dei due professori diversamente anziani. E sono rimasto sorpreso, sinceramente sorpreso, da semplificazioni e contraddizioni apparse evidenti perfino a me, lontanissimo dall’essere un costituzionalista ma anche dall’essere minimamente ferrato in diritto.
La prima, veramente eclatante, è contenuta in questa frase:
“Altri sono convinti da sempre che la Costituzione sia intoccabile, che fuori dal sistema proporzionale non c’è democrazia, come un tempo fuori dalla Chiesa non c’era salvezza, e che in ultima istanza sulle cose veramente importanti, piuttosto che la politica, sia meglio che decidano istituzioni di sapienti, di nobili coltivati da colte letture, messi al riparo dalla becera necessità di conquistare il consenso e governare giorno per giorno gli interessi in conflitto.”
Nessuno ha mai sostenuto che fuori dal sistema proporzionale non ci sia democrazia: la legge elettorale precedente a quella incostituzionale che prende il nome dal legaiolo Calderoli ne è l’esempio lampante: nessuno la ha mai definita incostituzionale o pericolosa per la democrazia. Eppure aveva una forte componente uninominale.
La “becera necessità di conquistare il consenso” è proprio quella che la riforma elettorale vuole evitare ai partiti politici, costruendo intorno ad uno di essi una maggioranza fittizia indipendente dal consenso effettivamente conquistato. Possibile che i due studiosi diversamente anziani non abbiano visto la contraddizione nella quale sono caduti?
La critica al modello Bundesrat è imbarazzante, e dimostra una profonda ignoranza del sistema istituzionale tedesco, per il quale il Bundesrat è l’organo attraverso il quale i Laender partecipano al processo legislativo e all’amministrazione a livello federale. Che non è esattamente un “Senato composto dai Presidenti delle Regioni e dai loro delegati”, come sostengono gli studiosi diversamente anziani.
“e secondo voi non è importante ridurre il numero dei parlamentari”. Dicono. Ed è vero: non è importante, proprio per niente. Obiettivo di una riforma costituzionale non è né può essere la riduzione dei costi della politica o il venire incontro ad esigenze contingenti. La riduzione dei costi della politica si potrebbe attuare con molto meno sforzo attraverso una legge ordinaria che dimezzi i compensi di ogni singolo parlamentare, senza necessità di quattro letture e di referendum confermativo: strano che nessuno dei soloni del governo se ne sia accorto.
-segue-
Leggo ancora: “senza l’entrata in vigore della riforma costituzionale e dell’Italicum entro il 2016, cioè almeno 18 mesi prima della scadenza naturale della XVII legislatura, i successivi governi sarebbero destinati a dibattersi tra instabilità e inconcludenza, e il parlamento tornerebbe a essere un suq.” E perché mai? Basterebbe che un partito o una coalizione riuscisse ad aggregare il consenso della maggioranza degli italiani, ed ecco che l’instabilità svanirebbe di colpo. O non erano forse i due studiosi a dichiararsi portabandiera della necessità di conquistare il consenso dell’elettorato?
Poi non ho ben capito se i soloni diversamente anziani considerino un suq il parlamento attuale, cioè quello che ha dato al Pastrocchio Democratico la maggioranza per modificare la Costituzione nel senso voluto da loro.
Chissà.
Ma io mi domando perché devo leggere queste robe, buone al massimo per essere sbandierate in programma televisivo della D’Urso, e vederle anche spacciate per dotte elucubrazioni.
Sarà sarà che ci ho la testa come un mulo, ma c’è qualcuno che mi prende …….