Di fronte alla prospettiva che la legge costituzionale di riforma della Costituzione sia sottoposta a referendum nel prossimo autunno, i sottoscritti, docenti, studiosi e studiose di diritto costituzionale, ritengono doveroso esprimere alcune valutazioni critiche. Non siamo fra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo.
Siamo però preoccupati che un processo di riforma, pur originato da condivisibili intenti di miglioramento della funzionalità delle nostre istituzioni, si sia tradotto infine, per i contenuti ad esso dati e per le modalità del suo esame e della sua approvazione parlamentare, nonché della sua presentazione al pubblico in vista del voto popolare, in una potenziale fonte di nuove disfunzioni del sistema istituzionale e nell’appannamento di alcuni dei criteri portanti dell’impianto e dello spirito della Costituzione.
1. Siamo anzitutto preoccupati per il fatto che il testo della riforma – ascritto ad una iniziativa del Governo – si presenti ora come risultato raggiunto da una maggioranza (peraltro variabile e ondeggiante) prevalsa nel voto parlamentare (“abbiamo i numeri”) anziché come frutto di un consenso maturato fra le forze politiche; e che ora addirittura la sua approvazione referendaria sia presentata agli elettori come decisione determinante ai fini della permanenza o meno in carica di un Governo. La Costituzione, e così la sua riforma, sono e debbono essere patrimonio comune il più possibile condiviso, non espressione di un indirizzo di governo e risultato del prevalere contingente di alcune forze politiche su altre. La Costituzione non è una legge qualsiasi, che persegue obiettivi politici contingenti, legittimamente voluti dalla maggioranza del momento, ma esprime le basi comuni della convivenza civile e politica. E’ indubbiamente un prodotto “politico”, ma non della politica contingente, basata sullo scontro senza quartiere fra maggioranza e opposizioni del momento. Ecco perché anche il modo in cui si giunge ad una riforma investe la stessa “credibilità” della Carta costituzionale e quindi la sua efficacia. Già nel 2001 la riforma del titolo V, approvata in Parlamento con una ristretta maggioranza, e pur avallata dal successivo referendum, è stato un errore da molte parti riconosciuto, e si è dimostrata più fonte di conflitti che di reale miglioramento delle istituzioni.
2. Nel merito, riteniamo che l’obiettivo, pur largamente condiviso e condivisibile, di un superamento del cosiddetto bicameralismo perfetto (al quale peraltro sarebbe improprio addebitare la causa principale delle disfunzioni osservate nel nostro sistema istituzionale), e dell’attribuzione alla sola Camera dei deputati del compito di dare o revocare la fiducia al Governo, sia stato perseguito in modo incoerente e sbagliato. Invece di dare vita ad una seconda Camera che sia reale espressione delle istituzioni regionali, dotata dei poteri necessari per realizzare un vero dialogo e confronto fra rappresentanza nazionale e rappresentanze regionali sui temi che le coinvolgono, si è configurato un Senato estremamente indebolito, privo delle funzioni essenziali per realizzare un vero regionalismo cooperativo: esso non avrebbe infatti poteri effettivi nell’approvazione di molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionalistico, né funzioni che ne facciano un valido strumento di concertazione fra Stato e Regioni. In esso non si esprimerebbero le Regioni in quanto tali, ma rappresentanze locali inevitabilmente articolate in base ad appartenenze politico-partitiche (alcuni consiglieri regionali eletti – con modalità rinviate peraltro in parte alla legge ordinaria – anche come senatori, che sommerebbero i due ruoli, e in Senato voterebbero ciascuno secondo scelte individuali). Ciò peraltro senza nemmeno riequilibrare dal punto di vista numerico le componenti del Parlamento in seduta comune, che è chiamato ad eleggere organi di garanzia come il Presidente della Repubblica e una parte dell’organo di governo della magistratura: così che queste delicate scelte rischierebbero di ricadere anch’esse nella sfera di influenza dominante del Governo attraverso il controllo della propria maggioranza, specie se il sistema di elezione della Camera fosse improntato (come lo è secondo la legge da poco approvata) a un forte effetto maggioritario.
3. Ulteriore effetto secondario negativo di questa riforma del bicameralismo appare la configurazione di una pluralità di procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di intervento del nuovo Senato (leggi bicamerali, leggi monocamerali ma con possibilità di emendamenti da parte del Senato, differenziate a seconda che tali emendamenti possano essere respinti dalla Camera a maggioranza semplice o a maggioranza assoluta), con rischi di incertezze e conflitti.
4. L’assetto regionale della Repubblica uscirebbe da questa riforma fortemente indebolito attraverso un riparto di competenze che alle Regioni toglierebbe quasi ogni spazio di competenza legislativa, facendone organismi privi di reale autonomia, e senza garantire adeguatamente i loro poteri e le loro responsabilità anche sul piano finanziario e fiscale (mentre si lascia intatto l’ordinamento delle sole Regioni speciali). Il dichiarato intento di ridurre il contenzioso fra Stato e Regioni viene contraddetto perché non si è preso atto che le radici del contenzioso medesimo non si trovano nei criteri di ripartizione delle competenze per materia – che non possono mai essere separate con un taglio netto – ma piuttosto nella mancanza di una coerente legislazione statale di attuazione: senza dire che il progetto da un lato pretende di eliminare le competenze concorrenti, dall’altro definisce in molte materie una competenza “esclusiva” dello Stato riferita però, ambiguamente, alle sole “disposizioni generali e comuni”. Si è rinunciato a costruire strumenti efficienti di cooperazione fra centro e periferia. Invece di limitarsi a correggere alcuni specifici errori della riforma del 2001, promuovendone una migliore attuazione, il nuovo progetto tende sostanzialmente, a soli quindici anni di distanza, a rovesciarne l’impostazione, assumendo obiettivi non solo diversi ma opposti a quelli allora perseguiti di rafforzamento del sistema delle autonomie.
5. Il progetto è mosso anche dal dichiarato intento (espresso addirittura nel titolo della legge) di contenere i costi di funzionamento delle istituzioni. Ma il buon funzionamento delle istituzioni non è prima di tutto un problema di costi legati al numero di persone investite di cariche pubbliche (costi sui quali invece è giusto intervenire, come solo in parte si è fatto finora, attraverso la legislazione ordinaria), bensì di equilibrio fra organi diversi, e di potenziamento, non di indebolimento, delle rappresentanze elettive. Limitare il numero di senatori a meno di un sesto di quello dei deputati; sopprimere tutte le Province, anche nelle Regioni più grandi, e costruire le Città metropolitane come enti eletti in secondo grado, anziché rivedere e razionalizzare le dimensioni territoriali di tutti gli enti in cui si articola la Repubblica; non prevedere i modi in cui garantire sedi di necessario confronto fra istituzioni politiche e rappresentanze sociali dopo la soppressione del CNEL: questi non sono modi adeguati per garantire la ricchezza e la vitalità del tessuto democratico del paese, e sembrano invece un modo per strizzare l’occhio alle posizioni tese a sfiduciare le forme della politica intesa come luogo di partecipazione dei cittadini all’esercizio dei poteri.
6. Sarebbe ingiusto disconoscere che nel progetto vi siano anche previsioni normative che meritano di essere guardate con favore: tali la restrizione del potere del Governo di adottare decreti legge, e la contestuale previsione di tempi certi per il voto della Camera sui progetti del Governo che ne caratterizzano l’indirizzo politico; la previsione (che peraltro in alcuni di noi suscita perplessità) della possibilità di sottoporre in via preventiva alla Corte costituzionale le leggi elettorali, così che non si rischi di andare a votare (come è successo nel 2008 e nel 2013) sulla base di una legge incostituzionale; la promessa di una nuova legge costituzionale (rinviata peraltro ad un indeterminato futuro) che preveda referendum propositivi e di indirizzo e altre forme di consultazione popolare.
7. Tuttavia questi aspetti positivi non sono tali da compensare gli aspetti critici di cui si è detto.
Inoltre, se il referendum fosse indetto – come oggi si prevede – su un unico quesito, di approvazione o no dell’intera riforma, l’elettore sarebbe costretto ad un voto unico, su un testo non omogeneo, facendo prevalere, in un senso o nell’altro, ragioni “politiche” estranee al merito della legge. Diversamente avverrebbe se si desse la possibilità di votare separatamente sui singoli grandi temi in esso affrontati (così come se si fosse scomposta la riforma in più progetti, approvati dal Parlamento separatamente).
Per tutti i motivi esposti, pur essendo noi convinti dell’opportunità di interventi riformatori che investano l’attuale bicameralismo e i rapporti fra Stato e Regioni, l’orientamento che esprimiamo è contrario, nel merito, a questo testo di riforma.
22, aprile 2016
LE FIRME
Francesco AMIRANTE Magistrato
Vittorio ANGIOLINI Università di Milano Statale
Luca ANTONINI Università di Padova
Antonio BALDASSARRE Università LUISS di Roma
Sergio BARTOLE Università di Trieste
Ernesto BETTINELLI Università di Pavia
Franco BILE Magistrato
Paolo CARETTI Università di Firenze
Lorenza CARLASSARE Università di Padova
Francesco Paolo CASAVOLA Università di Napoli Federico II
Enzo CHELI Università di Firenze
Riccardo CHIEPPA Magistrato
Cecilia CORSI Università di Firenze
Antonio D’ANDREA Università di Brescia
Ugo DE SIERVO Università di Firenze
Mario DOGLIANI Università di Torino
Gianmaria FLICK Università LUISS di Roma
Franco GALLO Università LUISS di Roma
Silvio GAMBINO Università della Calabria
Mario GORLANI Università di Brescia
Stefano GRASSI Università di Firenze
Enrico GROSSO Università di Torino
Riccardo GUASTINI Università di Genova
Giovanni GUIGLIA Università di Verona
Fulco LANCHESTER Università di Roma La Sapienza
Sergio LARICCIA Università di Roma La Sapienza
Donatella LOPRIENO Università della Calabria
Joerg LUTHER Università Piemonte orientale
Paolo MADDALENA Magistrato
Maurizio MALO Università di Padova
Andrea MANZELLA Università LUISS di Roma
Anna MARZANATI Università di Milano Bicocca
Luigi MAZZELLA Avvocato dello Stato
Alessandro MAZZITELLI Università della Calabria
Stefano MERLINI Università di Firenze
Costantino MURGIA Università di Cagliari
Guido NEPPI MODONA Università di Torino
Walter NOCITO Università della Calabria
Valerio ONIDA Università di Milano Statale
Saulle PANIZZA Università di Pisa
Maurizio PEDRAZZA GORLERO Università di Verona
Barbara PEZZINI Università di Bergamo
Alfonso QUARANTA Magistrato
Saverio REGASTO Università di Brescia
Giancarlo ROLLA Università di Genova
Roberto ROMBOLI Università di Pisa
Claudio ROSSANO Università di Roma La Sapienza
Fernando SANTOSUOSSO Magistrato
Giovanni TARLI BARBIERI Università di Firenze
Roberto TONIATTI Università di Trento
Romano VACCARELLA Università di Roma La Sapienza
Filippo VARI Università Europea di Roma
Luigi VENTURA Università di Catanzaro
Maria Paola VIVIANI SCHLEIN Università dell’Insubria
Roberto ZACCARIA Università di Firenze
Gustavo ZAGREBELSKY Università di Torino
La pubblicazione sul nostro sito di un documento i cui firmatari, prima ancora di entrare nel merito della riforma Renzi-Boschi, tengono a sottolineare che ‘ NON SIAMO FRA COLORO CHE INDICANO QUESTA RIFORMA COME L’ ANTICAMERA DI UNO STRAVOLGIMENTO TOTALE DEI PRINCIPI DELLA NOSTRA COSTITUZIONE E DI UNA SORTA DI NUOVO AUTORITARISMO ‘ non può che generare imbarazzo.
Perché – mi sono chiesto – anche alcuni tra i più prestigiosi autori dell’ appello della primavera 2014 ‘ Verso la svolta autoritaria ‘ hanno ritenuto giusto prendere le distanze da colleghi come i proff. Azzariti, Pace, Ferrara, Villone, Ferrajoli e tanti altri che proprio a quel profetico appello hanno ispirato il loro impegno di studiosi militanti all’ interno del Coordinamento per la democrazia costituzionale ?
” Stiamo assistendo impotenti al progetto di stravolgere la nostra Costituzione da parte di un Parlamento esplicitamente delegittimato dalla sentenza della Corte Costituzionale n.1 del 2014, per creare un sistema autoritario che dà al Presidente del Consiglio poteri padronali. ” Così iniziava l’ appello della primavera 2014 che si concludeva ribadendo che ” Una democrazia plebiscitaria non è scritta nella nostra Costituzione e non è cosa che nessun cittadino che ha rispetto per la sua libertà politica e civile può desiderare. Quale che sia il leader che la propone “.
Cosa è mai cambiato, in questi due anni , per convincere 56 giuristi – tra i quali , con mia grande meraviglia e altrettanto grande amarezza, i ‘ nostri ‘ Gustavo Zagrebelsky e Lorenza Carlassare – che questa riforma non stravolge i principi della nostra Costituzione e non è foriera di una svolta autoritaria ?
Giovanni De Stefanis, LeG Napoli
Perché è un tipico caso del detto “l’unione fa la forza”, ad esempio?
Un caso in cui il noi diventa un Noi e supera i particolarismi?
In cui occorre meno imbarazzo e più… vittoria?
Condivido in pieno, come sempre, le parole del Prof. De Stefanis.
Mi pare si stia ripetendo la Storia cosi’ come ce la racconta Emilio Lussu nei suoi libri ……Tanti uomini onesti e coraggiosi si opponevano a viso aperto al fascismo, rischiando la vita, tanto che in un primo tempo, il coraggio di Matteotti non fu un’eccezione. Sia parlamentari che uomini semplici si opposero, nelle rispettive realta’. Nel giro di poco tempo, la maggior parte di loro prese una certa tessera, idosso’ una certa camicia e abbraccio’ una certa bandiera. Io provo oggi lo stesso sgomento che provai leggendo quelle pagine.
Anch’io sono portato a pensare che sia un tentativo di unire, un collegamento per dare più consistenza a “l’orientamento contrario nel merito a questo testo di riforma.”
Quello che mi irritò allora e ancor oggi lo fa, è l’incip dell’appello ” Stiamo assistendo impotenti al progetto di stravolgere la nostra Costituzione…”
Impotenti non era e non è il termine giusto: da “spettatori rassegnati” sarebbe stato più calzante. Perchè le possibilità “potenziali” di intervento esistevano ed esistono nella Costituzione e nella società.
Poi nacque il CDC che si dette una strategia debole e quindi poco incisiva, che avrebbe espletato la sua azione nel diffondere ampiamente le ragioni del dissenso verso la controriforma, e per prepararsi al “referendum oppositivo”.
Referendum “ad alto rischio, pericolosissimo” a detta degli stessi promotori del CDC, viste le differenze di potenziale di fuoco massmediatico e dei facili ed efficaci slogans a disposizione del PdC, frenatori, conservatori, su una Cittadinanza che al 47% si trova in condizioni di “analfabetismo funzionaale” (prof. T. Montanari) e quindi molto vulnerabile.
Condivido questo appello, che trovo, rispetto a quello della primavera del 2014, più aderente alla realtà; più coinvolgente per soggetti non schierati pregiudizialmente; più concreto perché supportato da motivazioni specifiche e circostanziate; più autonomo rispetto a spinte di forze i cui obiettivi sono tesi a cambiare gli equilibri politici generali, più che a cancellare norme antidemocratiche. Quest’ultimo è, invece, il nostro obiettivo e dobbiamo evitare di essere accomunati a chi dovesse tentare di strumentalizzare i quesiti referendari per fini di bottega. Se poi, all’interno dello schieramento referendario si dovessero ritrovare moderati e radicali rispetto all’interpretazione delle riforme costituzionali e della legge elettorale, ciò non sarà di ostacolo all’unico scopo di cancellare le disposizioni antidemocratiche.
MI SPIACE MA VOI AVETE PAURA DELLA VOSTRA OMBRA EVIDENTEMENTE VI PIACE FARVI FOTTERE (SONO 50 ANNI CHE LO STATO LO FA CON I SUOI CITTADINI SUDDITI) FORSE VOI SIETE SUL LIBRO PAGA DELLO STATO??? COMUNQUE E’ MEGLIO PROVARE A CAMBIARE CHE CONTINUARE AD ESSERE SOTTOMESSI COME SCHIAVI DAI LADRONI INCAPACI CHE ABBIAMO NELLE ISTITUZIONI