Processo alla democrazia: è possibile che i cittadini siano stanchi di essere rappresentati?

06 Ott 2015

Che la democrazia non stesse così bene lo si sapeva da un pezzo. Lo sanno i cittadini e gli scienziati politici. Nel giro di un ventennio i certificati di morte, o quantomeno analisi inclini al pessimismo, si sono succedute a un ritmo incalzante. Se già negli anni Novanta Jean-Marie Guéhenno aveva parlato di “fine della democrazia” (Garzanti), a qualche anno di distanza Colin Crouch coniava il fortunato neologismo “postdemocrazia” (Laterza), mentre Ralf Dahrendorf ci collocava direttamente “dopo la democrazia” (Laterza). Diverse le cause di questo malessere, alcune ben note ai suoi stessi primi teorici. Si sa che Rousseau riteneva il sistema democratico tanto perfetto da convenire solo a un popolo di angeli, così come Tocqueville metteva in guardia in anticipo dalla possibilità di un dispotismo democratico. E a rischi simili pensava Montesquieu quando si preoccupava di proteggere la divisione dei poteri da un eccesso di concentrazione.

I fatti hanno in buona parte smentito tali timori. Oggi la democrazia — o almeno qualcosa che le assomiglia — è di gran lunga la forma politica più diffusa nel mondo. E tuttavia proprio questa straordinaria performance ha messo in evidenza una serie di limiti strutturali che il tempo ha reso ancora più stridenti. Il più paradossale è quello rilevato da Bernard Manin in Principi del governo rappresentativo (il Mulino): nella sua stessa formulazione la democrazia rappresentativa include un ineliminabile elemento aristocratico. Non essendo vincolati da un mandato imperativo e dunque non revocabili in ogni momento da coloro che li hanno eletti, i rappresentanti del popolo non devono rispondere a nessuno delle proprie scelte per tutta la durata della legislatura. Del resto il carattere oligarchico delle democrazie contemporanee è attestato dalla percentuale incredibilmente bassa dei cittadini che partecipano direttamente al governo della cosa pubblica. Il presidente degli Stati Uniti è eletto, ad esempio, da non più del 15 per cento degli aventi diritto al voto. Una buona metà di essi non si iscrive neanche alle liste elettorali e un’altra metà degli iscritti si astiene. Il restante quarto di elettori effettivi si divide quasi sempre con uno scarto minimo, che riduce ancor più i voti confluiti sul presidente eletto. Del resto le dinastie dei Kennedy, dei Bush, dei Clinton non ha il profilo inquietante di una democrazia ereditaria?

Ma a questi limiti, per così dire strutturali, del dispositivo democratico se ne sono aggiunti da qualche tempo altri che hanno accresciuto il senso di disillusione certificato nell’analisi di Roberto Foa e Yascha Mounk. Diverse sono le cause che rendono sempre più friabile, perfino lì dove è nata, la fiducia verso la democrazia. La prima è il contrasto, sempre più palese, tra il contesto statuale degli ordinamenti democratici e la dimensione globale del mercato e della finanza che condizionano le politiche pubbliche. Il punto di cedimento sta in quel paradigma di sovranità cui la pratica della democrazia è stata finora legata, messa in crisi da una governance mondiale che fa capo a gruppi di interessi e lobby di carattere non elettivo. A questo deficit di legittimità si associa, potenziandolo, il ruolo dei media nella formazione dell’opinione pubblica. È noto che un sondaggio di modeste proporzioni incide sulle scelte governative più di un mese di dibattiti parlamentari, allargando il distacco tra forme e contenuti della democrazia. Un’intera fascia di popolazione resta esclusa dai processi decisionali, concentrati alla fine in poche mani in grado di orientarli in direzione di interessi particolari. Quando poi chi governa è anche padrone, direttamente o indirettamente, di mezzi di informazione, il cerchio si chiude con effetti nefasti nei confronti di quel principio di uguaglianza su cui dovrebbe fondarsi il sistema democratico.

A risultarne colpito non è tanto l’estensione della rappresentanza, quanto la sua reale efficacia. Per certi versi, anzi, quanto più i canali rappresentativi si moltiplicano — ciascuno di noi è rappresentato in sedi diverse, locali, nazionali, internazionali — tanto meno incidono sulla vita effettiva delle persone, dipendente da questioni di carattere biopolitico, quali la sussistenza materiale, la salute, il rapporto con i flussi migratori, etc. Tutto ciò determina una doppia divaricazione. Da un lato quella dei cittadini nei confronti della istituzioni — l’insieme di riserve e di atteggiamenti negativi che Pierre Rosanvallon ha rubricato col termine “controdemocrazia” (Castelvecchi). Dall’altro quella delle istituzioni nei confronti di un popolo sempre più incline a forme di vera e propria antipolitica. Lo scivolamento della legittima protesta contro determinate opzioni governative verso forme di populismo costituisce oggi il rischio maggiore per le democrazie contemporanee, strette nella tenaglia tra disinteresse ed avversione. La deriva populista ha l’effetto controproducente di scavare un solco sempre più profondo tra potere e società rendendo il primo ancora più indipendente dalla seconda. In questo cortocircuito perverso il populismo finisce per espropriare del tutto il popolo dalle decisioni che lo riguardano, mettendo, come diceva M. Gauchet, “la democrazia contro se stessa” (Gallimard).

Come rispondere a questa deriva autodistruttiva? Di antidoti ne esistono. Essi vanno dalla riduzione delle pratiche corporative del ceto politico — liste elettorali bloccate, governi tecnici, finanziamenti illeciti — all’incremento di forme di democrazia diretta, come campagne di informazione, primarie regolate, referendum non solo abrogativi. Ma tutto ciò avrà scarsi esiti se non si va al cuore del problema, che non riguarda tanto la forma, quanto la sostanza, della democrazia. Ad essere alle corde non è tanto il sistema democratico, quanto la politica che dovrebbe renderlo vitale. È questa che sembra dissolversi in discussioni tecniche sugli strumenti che finiscono per perdere di vista i fini. La politica, ridotta ad amministrazione, s’incarica di risolvere solo i problemi emergenti, senza dirci cosa intende fare e perché. Quali sono i suoi progetti e come raggiungerli. E in questo assordante silenzio che le alternative politiche appaiono tutte interne allo stesso modello e dunque irrilevanti. Ciò che manca è la capacità di alzare il tono del discorso pubblico, facendo della democrazia lo spazio necessario delle regole comuni, ma della politica il luogo in cui si confrontano, e affrontano, valori ed interessi diversi e contrapposti.

Repubblica, 4 ottobre 2015

 

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