Intercettazioni, il Parlamento espropriato

26 Set 2015

Stefano Rodotà

VI è un filo tenace che lega le norme già approvate sui controlli a distanza dei lavoratori e quelle che si annunciano sulle intercettazioni telefoniche. In entrambi i casi siamo di fronte ad interventi che incidono su diritti fondamentali delle persone. In entrambi i casi è il governo che ha il potere finale di decidere in materie così delicate. Bisogna seguire con attenzione vicende come queste per comprendere come stiano cambiando le nostre istituzioni.

VI è un filo tenace che lega le norme già approvate sui controlli a distanza dei lavoratori e quelle che si annunciano sulle intercettazioni telefoniche. In entrambi i casi siamo di fronte ad interventi che incidono su diritti fondamentali delle persone. In entrambi i casi è il governo che ha il potere finale di decidere in materie così delicate. Bisogna seguire con attenzione vicende come queste per comprendere come stiano cambiando le nostre istituzioni.
E non farsi soltanto fuorviare dalle non edificanti schermaglie intorno alle modalità di elezioni del Senato.
Il meccanismo messo a punto è molto semplice. Il Governo chiede ed ottiene dal Parlamento una delega per regolare questioni della massima importanza, che riguardano la vita delle persone e i caratteri che viene assumendo la stessa democrazia. Le apparenze sono quelle di un pieno rispetto della legalità costituzionale. La sostanza è quella di un suo non indifferente svuotamento. La Costituzione, infatti, prevede che il Parlamento possa delegare al Governo potere normativo, in base però a precisi principi e criteri direttivi che esso stesso individua. La voce del Parlamento torna poi a farsi sentire quando è chiamato ad esprimere un parere, sia pure non vincolante, sui decreti predisposti dal Governo.
Ma che cosa accade quando la delega è sostanzialmente in bianco, o tale da attribuiti una larghissima discrezionalità, e il parere parlamentare viene considerato del tutto ininfluente? Si determinano una espropriazione del Parlamento e un trasferimento al Governo della parola ultima e definitiva addirittura in materia di diritti fondamentali. Un corto circuito che svuota di senso la garanzia costituzionale, fa nascere un problema di legittimità di questo modo di legiferare e chiamerà in causa la Corte costituzionale.
Non dimentichiamo che i temi dei controlli a distanza e delle intercettazioni erano stati finora affidati a norme di leggi la cui approvazione aveva visto il Parlamento come unico protagonista. Ora assistiamo ad un ulteriore accentramento di poteri nelle mani del Governo, che così si libera del Parlamento di cui viene certificata l’irrilevanza. E tutto questo avviene all’insegna di una forte perdita di trasparenza del processo legislativo nel suo insieme con il passaggio dalla sede parlamentare, sempre controllabile dall’opinione pubblica, alle opache stanze del governo.
Si ricordi che la caduta della “ legge bavaglio” sulle intercettazioni, di cui questo giornale fu protagonista, fu resa possibile proprio dall’esistenza di una situazione istituzionale che consentiva di intervenire e mobilitare l’opinione pubblica mentre l’iter parlamentare di quella legge era ancora in corso. Inoltre, i due casi qui discussi mostrano che si stanno mettendo le mani sulla prima parte della Costituzione quella dei principi e dei diritti, di cui a parole viene dichiarata l’intoccabilità. Si possono accettare questi slittamenti progressivi, questa strisciante erosione delle garanzie?
Controlli a distanza e intercettazioni riguardano la stessa materia, quella della tutela della sfera privata. Vale la pena di ricordare, allora, che la norma sui controlli a distanza si trovava nello Statuto dei lavoratori e che — insieme a quelle sulle informazioni relative alle opinioni, sulle informazioni e i controlli medici — aveva creato la prima disciplina sulla sfera privata delle persone. Storicamente considerata come un diritto dell’”età dell’oro della borghesia”, il diritto alla privacy entra nel sistema italiano attraverso i diritti dei lavoratori, ventisette anni prima del riconoscimento per tutti della tutela dei dati personali.
Aggiornarla per effetto dell’incidenza delle nuove tecnologie? Certo, ma non come ha fatto il Governo, che la ha mantenuta per i controlli con telecamere, mentre la ha sostanzialmente cancellata per i controlli sui lavoratori effettuati raccogliendo i dati relativi all’uso di computer, telefoni cellulari, iPhone, iPad. La logica avrebbe voluto che le antiche garanzie fossero estese alle nuove tecnologie, assai più invasive di quelle passate perché consentono una sorveglianza continua su ogni mossa del singolo lavoratore, così legato da una sorta di guinzaglio elettronico a chi vuole controllarlo.
Con una singolare, e rivelatrice, schizofrenia istituzionale, mentre la sfera personale dei lavoratori viene assoggettata ad una assoluta trasparenza, si vuol far diventare opaca la sfera personale delle persone intercettate. Intendiamoci. La tutela di persone estranee all’oggetto delle intercettazioni merita d’essere tutelata, a condizione però che tutto questo non determini una compressione del diritto costituzionale all’informazione sul suo duplice versante, quello di chi informa e quello di chi deve essere informato.
Non dimentichiamo che il codice sull’attività giornalistica, a suo tempo approvato dal Garante per la privacy, prevede che le informazioni riguardanti le figure pubbliche sono tutelate solo se non hanno “alcun rilievo” per l’informazione dei cittadini. Questo è un criterio di carattere generale, che ha come fine la possibilità di esercitare un controllo diffuso sia su chi ha responsabilità e ruoli pubblici, e per ciò non può pretendere coperture di segretezza, sia su chi è chiamato a dare un seguito alle informazioni raccolte, magistrati compresi. Inoltre, le modalità di selezione delle informazioni prodotte possono incidere sul diritto di difesa, precludendo l’accesso a materiali che le parti potrebbero ritenere necessari appunto per le strategie difensive.
La garanzia di tutti questi diritti fondamentali viene sottratta non solo alla competenza diretta del parlamento ma, chiusa come sarà in una commissione ministeriale, pure allo sguardo dell’opinione pubblica, alla quale viene sottratta la possibilità di seguire il modo in cui si inciderà su quei diritti e di contribuire beneficamente ad una migliore disciplina. Si deve poi aggiungere che, come molti hanno sottolineato, la delega presenta oscurità e lacune tali da configurare, dietro l’apparenza delle precisazioni, un’attribuzione di larga discrezionalità a chi dovrà attuarla.
Saggezza vorrebbe che si interrompesse un procedimento legislativo così contorto e pericoloso. Si stralci al Senato la parte sulle intercettazioni e si restituisca al Parlamento il pieno potere di legiferare e all’opinione pubblica quello di far sentire la sua voce.
la Repubblica, 26 settembre 2015

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