Incontro con lo scrittore dopo “la fuga” in Messico. Marquez: «Racconto un delitto»

22 Apr 2014

Sandra Bonsanti Presidente emerita Libertà e Giustizia

Marzo-aprile 1981. Al seguito di Sandro Pertini nel suo viaggio in Colombia, Messico e Costa Rica, un viaggio per me indimenticabile. Sono con due grandi amici e maestri, Enzo Biagi e Miriam Mafai. Intervistiamo tutti e tre Gabriel Garcìa Marquez, Enzo da solo, Miriam e io insieme, lei per Repubblica e io per La Stampa. Ci sono momenti della vita in cui si impara molto da pochi grandi. E Gabriel Garcìa Marquez era un grandissimo.

marquez

Marzo-aprile 1981. Al seguito di Sandro Pertini nel suo viaggio in Colombia, Messico e Costa Rica, un viaggio per me indimenticabile. Sono con due grandi amici e maestri, Enzo Biagi e Miriam Mafai. Intervistiamo tutti e tre Gabriel Garcìa Marquez, Enzo da solo, Miriam e io insieme, lei per repubblica e io per la Stampa. Ci sono momenti della vita in cui si impara molto da pochi grandi. E Gabriel Garcìa Marquez era un grandissimo.
5 aprile 1981 «Ho lasciato la Colombia perché i militari stanno preparando un golpe» – «Il terrorismo è stato un ricorso alla disperazione, ora non è più tollerabile, è senza uscita» – «Castro è un tenero, gli piacciono Dracula e Don Chisciotte» – Anticipa il nuovo libro: «Cronaca di una morte annunciata»
Dal nostro inviato speciale Città del Messico — «Un whisky per parlare italiano. Tre whisky per cantare Puccini. Con Fidel discuto solo di letteratura: vado a Cuba tre volte l’anno, con una grossa valigia tutta piena di libri per lui e quando torno, la volta successiva, li ha divorati tutti. La cosa che più mi impressiona in Castro è la sua tenerezza, un aspetto poco conosciuto. Insieme ci dimentichiamo della politica — e se questo che dico non fosse del tutto vero non importa… —. I libri che ama di più sono Dracula e Don Chisciotte.

Ingannatore e ammiccante, Garcia Marquez, “el Gabo”, è approdato in Messico pochi giorni fa dalla Colombia. Si trova a suo agio nel bar del «Camino Real, il grande albergo che brulica di gente d’ogni genere, agenti, spie, militari del presidente Portillo in alta uniforme, turisti scottati dal sole. Portillo sta arrivando per un ricevimento a Pertini. E’ nel suo quartiere che riposa e non ha potuto vedere Marquez, che con lui si intendeva parlar di politica, di cosa succede in Colombia e dei militari che secondo lui «sono sul punto di fare un colpo di Stato».
Marquez, forse deluso, non è però né malinconico né preoccupato. Questa sua «fuga politica resta un po’ un mistero e cercare di risolverlo ascoltandolo parlare è un’impresa impossibile: circondato da un piccolo clan che lo segue ovunque e lo ha fotografato in ogni fase della sua partenza da Bogotà, lo scrittore fa di tutto per portarti fuori strada, per raccontarti soavemente un’altra delle sue stupende storie, e mentre lo ascolti sai che le cose forse non stanno proprio cosi, e a lui non importa se lo hai indovinato, basta che stai al gioco.
Storia vera – L‘editore spagnolo Barral ha detto che dietro il gesto di Marquez ci possono essere due motivi: o l’autore di Cent’anni di solitudine si stava annoiando, oppure «sta diventando un demagogo». A Bogotà, lui si era sentito sospettato, una volta scattata l’operazione militare contro i guerriglieri addestrati a Cuba, per la sua amicizia con Castro. Marquez dice: «Sono di sinistra, ma non sono io né l’ispiratore né il capo dei terroristi. Sono venuto via per dare un avvertimento, compiere un gesto traumatico che portasse la gente a chiedersi: ma che succede in Colombia? Succede che il presidente Turbay Ayala è in buona fede, ma i militari preparano un colpo di Stato e lui non lo sa».
E se quel golpe ci fosse davvero? «Allora mi troverei schierato con Ayala. Ma per adesso dovranno fare senza di me. Mi hanno detto che quei militari avevano la facoltà di tenermi in isolamento più di dieci giorni senza che nessuno sapesse dov’ero finito né che sorte mi aspettava».
Del terrorismo dice cose durissime: «E’ in grande crisi, gli anni dei terroristi sono stati gli Anni Settanta. E’ stato un ricorso alla disperazione, ma non si può tollerare per nessun motivo, né giustificare nemmeno in parte e come mezzo di lotta politica. E’ una via senza uscita». Ora che è venuto a rifugiarsi in una casa bianca di Calle del Fuoco, nascosta nel verde del più pacifico angolo residenziale di Città del Messico, sprofondata in un silenzio quasi ossessivo, rotto solo dall’abbaiare di immensi cani da guardia, Marquez dice della Colombia cose che sembrano paradossali. Dice: «E’ vero, è il più grande fornitore di droga nel mondo e me ne vanto. Bisogna pur inventare qualcosa per vivere, io invento storie. Molta gente ha fatto molti soldi con la droga e poi sono diventate persone perbene».
Tra un’allusione e l’altra, un’invenzione e una fetta di realtà, mentre nel bar i turisti americani si preparano a una lunga notte chiassosa, Marquez insiste nella finzione di separare letteratura e politica e parla del libro che uscirà fra poco: Cronaca di una morte annunciata. Avverte che il titolo non ha niente a che fare con la sua vicenda personale: «Voi europei non sapete credere all’imprevisto, ma solo a concatenazioni di verità. Un’astrazione tipicamente vostra. No, il romanzo non riguarda la mia vita né i miei timori. E’ una storia vera, accaduta trent’anni fa. E poi sia chiaro che non ritengo di correre pericolo di morte». «La storia di un assassinio terribile, un delitto d’onore di cui fu vittima un mio grande amico, un giovane che era stato a scuola con me. Ve la racconto».
Marquez, nel suo italiano dolce e strano, comincia una storia accaduta in un villaggio dei Caraibi, quando «un uomo sposa una donna, la sera trova che non é vergine e la rimanda a casa. Allora la madre della sposa chiama i suoi due figli, che chiedono alla ragazza: “Chi è stato?”. Lei dice il nome. Loro non vogliono ucciderlo: ma devono e hanno deciso, ma pregano Dio che qualcosa accada per non doverlo fare. Sono le tre di mattina, l’unico posto aperto nel villaggio è un piccolo bar dove si vende alcool. E’ proprio di fronte alla casa del seduttore, che è loro amico. L’aspettano per ammazzarlo. Nel frattempo tutti comprano alcool e a tutti i due fratelli mostrano i coltelli. E dicono: “Sono per uccidere quello là”. Perché? “Lui lo sa”, rispondono». Continua Garcia Marquez: «Un’ora dopo, il villaggio sa che aspettano l’alba per ammazzare.
Proprio come accadde molti anni fa a Roma, quando assassinarono Giulio Cesare. Tutti sapevano e tutti lo dicevano a tutti tranne al seduttore. Gli mandano persino un biglietto, avvertendolo, e lo mettono sotto la porta. Il seduttore finalmente esce di casa, ma calpesta il messaggio e non lo vede. Chi lo guarda uscire pensa: “Non è possibile che non sappia”. Lui esce perché deve aspettare il vescovo che viene al villaggio, ma il vescovo passa e non si ferma».
Lo scrittore fa un gesto con la mano grossa, come a indicare una cosa che passa davanti e scompare. Prosegue: «La delusione fra la gente è totale. Il ragazzo torna verso casa e tutti prendono posto nella piazza per vedere se la follia accadrà. Accade come previsto». Dice Marquez che tutto questo è raccontato nella prima pagina del libro, che si sa «chi. dove, quando. Ma non come», come in un giallo. Forse un omaggio a Graham Greene, lo scrittore che quest’anno potrebbe anche vincere il Premio Nobel. Ha la «grossa speranza» che, per sapere quel «come-, il libro venga letto: «Modestamente penso che non sia mal fatto».
«Sono poeta»  – E il villaggio dove il dramma si svolge, nemmeno il villaggio è un simbolo? «Non è un simbolo di niente, è la pura verità. Quel ragazzo ucciso era figlioccio di mia madre e gli assassini due belle persone incapaci di far del male, ma col grosso problema del pregiudizio. Ho cominciato questo libro nel ’55, cinque anni dopo che tutto era accaduto».
Il romanzo nel romanzo: Marquez racconta (inventa?) una nuova storia. Il ragazzo fu massacrato proprio contro la porta di casa, che la madre gli chiuse in faccia pensando che quelli che lo seguivano volessero soltanto scandalo e rumore, non ucciderlo. «Massacrato contro la porta di casa e nessuno capiva come quella donna non diventasse pazza. Mia madre allora mi chiese di non scrivere il libro finché quella donna era viva: ha vissuto 25 anni».
Tempo fa «el Gabo» aveva promesso che (tanto per non confondere politica e letteratura) non averebbe più pubblicato un libro fino a quando Pinochet non fosse stato cacciato. «Non è ancora caduto e il realismo mi pare una virtù che manca alla sinistra latino-americana. I critici dicono che sono il più alto rappresentante del realismo magico nel Sud. Invece credo il contrario: sono l’unico poeta col senso della realtà. E allora, siccome il mio realismo indica che Pinochet non è caduto, non cade e non si sa quando cadrà, io pubblico il mio romanzo. Pinochet non cambia, io cambio, ergo io vivo, lui no».
Cos’è allora per Marquez la politica? «E’ il gioco degli scacchi della realtà». Di cosa ha bisogno la Colombia? «Di un re buono, generoso, amoroso, giusto e democratico». Cosa le manca, senza la Colombia? «Quasi tutto. Intanto scrivo le mie memorie: non è troppo presto, tutti scrivono quando ormai non ricordano più nulla. Il titolo? Vivere per raccontarlo. Ho inventato un sistema che farà invidia a tutti: ho cominciato una storia lineare, ogni trecento pagine taglio e faccio un libro». Cos’è la sinistra? «L’unica promozione umana possibile». E la destra? «Tutto il contrario». E’ religioso? «Meglio, sono superstizioso». E l’amore? «Sono innamorato per tutta la vita, ma una sola volta in vita mia». Indica una donna molto bella, si chiama Mercedes, è rimasta seduta accanto a noi, ma a un altro tavolo, silenziosa fra la folla che in questo porto di mare si agita, ride scompostamente, congiura, fa affari.

Nata a Pisa nel 1937, sposata, ha tre figlie. Si è laureata in etruscologia a Firenze e ha vissuto per molti anni a New York. Ha cominciato la sua attività professionale nel 1969 al “Mondo” con Arrigo Benedetti.

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