Le ingiustizie della giustizia penale

03 Lug 2013

Nella prassi del processo le ingiustizie e le discriminazioni si cristallizzano, acquistano riconoscimento.
Corrotti e corruttori, utilizzatori delle risorse pubbliche a fini privati sono i più forti. All’altro estremo i poveri e disagiati. I sommersi e i salvati.

Nessuno, tanto meno questa politica annaspante, può dire di avere idee chiare e risolutive per risolvere la questione della giustizia penale. Si è creato nel tempo un intrico di pregiudizi ideologici, interessi e pigrizie di categoria, manipolazioni politiche a servizio di interessi di un singolo, propaganda più o meno becera, opportunismi politicisti. Tuttavia per fare il primo passo in avanti è necessario porsi alcune domande: come siamo arrivati a questo punto? Oggi il processo penale è in grado di assicurare risultati che possano definirsi quanto meno prossimi ad un idea di giustizia? E inoltre: premesso che il processo è solo un mezzo del far giustizia, è in crisi il mezzo o lo è il senso stesso del far giustizia nel nostro paese?
C’è oggi, nel mondo e da noi, un fortissimo bisogno di giustizia, nel senso più ampio. Il diritto alla giustizia, ha scritto Salvatore Veca, “è il diritto a che la società in cui viviamo sia governata giustamente”. La giustizia come istituzione della polis “è come circondata dal contesto etico più ampio in cui una sorta di moralità umanitaria governa le nostre relazioni non istituzionali con ogni altra persona” (Idee per la giustizia ed equità globale, relazione alla scuola di Pavia di Libertà e Giustizia, 2012).
La giustizia è pietra angolare della polis. Della crisi della democrazia quella del processo penale è inevitabile conseguenza.  Ma ne è anche causa, se è debole la capacità del processo di tutelare i diritti violati, privati e collettivi.
Il processo non è mai questione privata. Una sentenza giusta fa bene all’intera collettività. Una sentenza ingiusta, di assoluzione o di condanna, è sempre una ferita alla democrazia. Per questo secondo l’art. 101 della Costituzione la giustizia è amministrata in nome del popolo (e le sentenze sono pronunciate “in nome del popolo italiano”). La giustizia dunque, anche come istituzione, fa parte a pieno titolo della vita democratica e del “discorso pubblico” (per questo è politicamente miope e non ha legittimità la scelta di tenere distinte politica e giustizia e considerare ininfluenti le sentenze penali contro Berlusconi).
Presupposto di tutto questo è il riconoscersi in valori condivisi e praticati. Ma i principi costituzionali alla radice della funzione giudiziaria sono indeboliti, primo fra tutti quello di uguaglianza previsto dall’art. 3. L’indice di Gini, che definisce le disuguaglianze nella distribuzione del reddito, delle opportunità e della ricchezza, per l’Italia è tra i peggiori in Europa. E’ in difficoltà anche il principio di solidarietà previsto dall’art. 2: ognuno operi non solo in vista dell’interesse personale ma per contribuire, con i propri doveri, ai pubblici interessi. Quindi, ciascuno sia chiamato a rispondere dei suoi errori, delle sue trasgressioni, del danno provocato ad altri e alla collettività. E invece, come ha scritto Nadia Urbinati, in Italia i principi del liberalismo, diversamente da quanto accaduto negli altri paesi a democrazia avanzata, sono stati applicati nel modo più individualista possibile: i diritti come  relazione esclusiva tra i pubblici poteri e il singolo, gli interessi e i diritti collettivi tra parentesi. Un modo tra i tanti per tradire la costituzione.
Con una prima conseguenza. Se il processo serve a difendere il singolo dallo stato, se l’accusato è essenzialmente una potenziale vittima di errori o abusi, non ci sono limiti alle esigenze di difesa e sarà necessario escogitare sempre nuovi strumenti, normativi o giurisprudenziali, per rafforzarle. E’ esattamente quello che è accaduto. Il che sarebbe non solo del tutto corretto ma doveroso se le difese del cittadino fossero affidate alla capacità di ascolto dei giudici, alla loro capacità di capire che il mondo non si divide in buoni e cattivi e che anche un colpevole può essere “innocente”; se fossero affidate a norme chiare e rispettose e ad un processo ragionevolmente rapido. E soprattutto se gli strumenti di difesa formale fossero non solo teoricamente previsti ma praticati sempre, anche (anzi: soprattutto) nei processi contro  i meno garantiti.
Si è perseguita invece una illusoria garanzia dei diritti attraverso estenuanti strumenti formali, con il risultato di rendere insopportabilmente lungo il percorso verso la decisione.
Ma così si tutela chi già è (anche economicamente) più garantito fuori dal processo, gli accusati dei fatti più complessi e più nascosti e quindi più difficili da provare. Peggio: tra loro si tutelano i colpevoli; gli innocenti hanno fretta di vedere riconosciuta la loro innocenza.
Nella prassi del processo le ingiustizie e le discriminazioni si cristallizzano, acquistano riconoscimento.
Corrotti e corruttori, utilizzatori delle risorse pubbliche a fini privati sono i più forti. All’altro estremo i poveri e disagiati. I sommersi e i salvati. Due processi penali del tutto diversi, come se i codici non fossero gli stessi.
Per i poveri, spesso accusati solo di reati previsti alle leggi sulla immigrazione e quindi “colpevoli di niente” come ha scritto Massimo Marnetto, il processo è quasi inesistente. Arresto, convalida, rapida discussione, condanna; quasi mai c’è scampo. E soprattutto carcere, tanto carcere e subito, senza troppo riguardo per la presunzione di non colpevolezza. Per i salvati, processi ultra garantiti, tempi lunghissimi e condanna spesso virtuale anche per fatti gravi.
Il processo in realtà sta morendo di tecnica.
Talvolta le accademie del diritto e i custodi della giurisprudenza  perdono di vista il senso e il fine del far giustizia e lasciano che a farlo siano filosofi, sociologi, criminologi, economisti, storici, pedagogisti,  psichiatri; e certo la giustificazione non può  essere una pretesa oggettività e neutralità scientifica del diritto, che è solo un’illusione.
Il diritto sostanziale tuttavia, nel suo complesso e con molte criticità, riesce a mantenere la propria (nobile)  funzione di interpretazione della realtà e delle condotte umane alla luce del diritto. La tecnica resta uno strumento.
Nel processo invece la tecnica è spesso fine a se stessa, è interpretazione di pure convenzioni formali. La giurisprudenza pone convenzioni sulla interpretazione di convenzioni normative.
Tecnica pura, e dispendiosissima sotto ogni profilo. In tema di procedura le variazioni giurisprudenziali sono di solito le più bizzarre. Colpi di teatro non di rado distruttivi, che a volte fanno pensare alla favola del lupo e dell’agnello: superior stabat lupus.
Ma che la assoluzione o, peggio, la condanna di una persona dipenda da scelte tecniche e formali è corretto e accettabile solo entro ristretti e ragionevoli limiti.
Tutto questo accade perché in realtà i veri obiettivi che il potere oggi assegna al diritto penale sono indicibili ed estranei alla funzione del processo: la sicurezza e il controllo sociale da un lato (le carceri scoppiano perché piene di poveri); la garanzia di tutela del potere e dei potenti dall’altro. La tecnica è un perfetto diversivo, e nessuno propone di invertire la rotta.
Il processo è strumento di democrazia per stabilire la verità in nome del popolo. Senza verità qualunque sentenza, di condanna o di assoluzione, è un inganno e una ingiustizia.
Il bisogno di verità, ha scritto Simone Weil, è il più sacro fra quelli che una civiltà democratica deve riconoscere a proprio fondamento.
Ma nel nostro paese il rapporto con la verità è sempre stato difficile. Per molte ragioni, storiche e culturali, ed in definitiva per ragioni di puro e semplice tornaconto del potere. Il segreto e l’occultamento della verità sono stati e sono ancora un fondamentale strumento di governo. La verità è sempre stata temuta. La corruzione del tessuto democratico e l’avversione per il controllo di legalità nasce da lì. Il diritto penale, se applicato a chi ha potere, ha ricevuto uno stigma di estraneità, anzi di incompatibilità, con il sistema politico istituzionale, con il potere reale. Il processo  penale è stato umiliato.
Non si tratta certo di rimpiangere una concezione arcigna, sostanzialista, non garantista, tanto meno moralistica del processo penale. Al contrario. Però solo istituzioni politiche autorevoli e non tributarie verso entità e lobbies esterne sono in grado di attribuire a ciascuno il suo, trovando il punto di equilibrio più mite e più dialogante  possibile tra i diritti dell’accusato, chiunque sia, e quelli collettivi. Qualunque progetto di riforma deve partire da qui.

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