Nei panni di un elettore del Pd

06 Ott 2008

Proviamo a metterci nei panni di un ipotetico elettore medio del Pd: ha creduto nel nuovo partito, lo ha votato, e adesso osserva gli eventi. Affranto per il risultato elettorale, ora inorridisce davanti all’involuzione democratica che si vede squadernata davanti agli occhi. Vede il razzismo strisciante che si sta impadronendo della società, assiste alla sistematica demolizione dei fondamenti costituzionali, dall’assalto all’autonomia della magistratura all’umiliazione del Parlamento, e si sente travolto da un crescente senso di impotenza. Vive da persona normale, e si accorge di non riuscire a parlare con tanti suoi concittadini: che vada al bar o al mercato, che frequenti gli uffici postali o l’anticamera del dentista, intorno a sé sente molta gente a cui tutto questo piace, tanto da respingere con fastidio ogni tentativo di ragionarci sopra. Ad aggravare la situazione, per il nostro protagonista, c’è il balbettio imbarazzante con cui i dirigenti del Pd, quelli che lui ha votato, reagiscono di fronte a tanto sfacelo. Qualunque trovata del governo, per bislacca che sia, trova un commentatore di sinistra disposto ad esaminarla benevolmente e ad ammonire che non bisogna dire troppi no. Chi protesta viene zittito con l’accusa infamante (?) di antiberlusconismo o di dipietrismo. E sorvoliamo sulle beccate reciproche che i galli del pollaio democratico si scambiano quotidianamente.Bene, che cosa può fare davanti a tutto questo il cittadino in questione? La via d’uscita più facile è non pensarci più: sfogarsi di tanto in tanto con gli amici che la pensano come lui, evitare tutti gli altri e godersi (per chi può) la vita e la famiglia.

Ma l’elettore democratico non è ancora così disperato. Vorrebbe fare qualcosa, dare una mano, partecipare a una battaglia civile che sente indispensabile. Vorrebbe, ma non può. Dove andare, con chi parlare e per quali obiettivi battersi? Non si sa.Certo, c’è la manifestazione di fine ottobre. Il nostro uomo, o donna, può andarci e contribuire al suo successo. Ma poi? E’ chiaro che non può essere una manifestazione a ribaltare la situazione. C’è bisogno di elaborare tattiche e strategie, di mettere a punto proposte, di trovare il linguaggio giusto per comunicare con l’altro pezzo di Italia, quello che applaude al decisionismo berlusconiano senza preoccuparsi delle conseguenze. C’è tanto lavoro da fare, e c’è anche tanta gente disposta a spendersi per farlo. Gente che non aspira ai posti in prima fila, ma solo a partecipare. Libertà e Giustizia lo sa bene, perché questa è la domanda che accompagna tutti gli eventi organizzati di recente: che cosa possiamo fare?, chiedono i partecipanti alla fine della discussione. E nessuno è in grado di dar loro una risposta soddisfacente.Dovrebbe farlo il Pd, se volesse raccogliere una domanda di militanza che può rivelarsi preziosa. Ma questo significa dare al popolo democratico sedi di dibattito, offrirgli confronti interni veri su linee politiche chiare, mettere in campo una disponibilità all’ascolto che finora non si è vista. E significa soprattutto, in via preliminare, porre fine alla babele di linguaggi che affligge il vertice del partito.Un compito che spetta in primo luogo a Walter Veltroni.

E’ sua la responsabilità di ricostruire una leadership credibile e autorevole. Ma sapendo che, per sua natura, quello del Pd non è un popolo plaudente. E’ un popolo maggiorenne, critico e avvertito. Chiede di esserci e di fare la sua parte. Accoglierlo non garantisce la vittoria. Ma respingerlo significa votarsi al disastro.

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