Lo scrittore si racconta in un documentario alla Festa del cinema di Roma. Nel film “Le avventure del Lupo” anche amici come Baricco e Pennac Intervista di ROMA Stefano Benni ha composto svariati copioni ma non ha mai messo in scena se stesso, ha scritto un’ infinità di libri ma mai un’ autobiografia, ha parlato tante volte in pubblico ma è allergico agli autoritratti, e rilascia rare interviste per non sconfinare in cose personali.
Questo riserbo così coerente ha una data di scadenza: domenica 21 ottobre al Maxxi di Roma, nella Festa del Cinema, è annunciato il film documentario di Enza Negroni Le avventure del Lupo, sottotitolo “La storia quasi vera di Stefano Benni”, un tragitto di 83 minuti negli spazi dell’ anima dell’ autore a contatto con amici, scrittori e musicisti.
Benni, cosa l’ha convinta a mettere da parte il suo leggendario riserbo, uscendo allo scoperto in un film tutto basato su di lei?
«Prima della vecchiaia ci piace nascondere i segreti, nella vecchiaia ci piacerebbe tanto avere segreti da nascondere. Scherzi a parte, avevo già apprezzato i lavori precedenti di Enza Negroni, e abbiamo trovato subito l’intesa su cosa girare e cosa no. In realtà della mia vita privata non c’è molto. È la storia del mio viaggio artistico e delle persone che mi hanno stimolato, aiutato e hanno lavorato al mio fianco.
Un ringraziamento ai compagni di strada, e anche a tutto ciò che mi ha ispirato, dai luoghi ai suoni».
Quanto sarà verosimile, il quadro benniano che verrà fuori, considerato che sul web si legge “non esiste una biografia del lupo Benni perché da trent’anni, tutte le volte che gliela chiedono il lupo la cambia, dicendo balle o quasi-balle”?…
«Ho sempre detto delle quasi-bugie e ha funzionato, ho tenuto una parte della mia vita lontano dalle chiacchiere inutili.
Ma basta leggere i miei libri e io sono lì, tutto intero. Però attenzione: nel documentario sparo qualche fanfaronata, perciò non fidatevi troppo».
Veniamo al Benni definito Lupo: lupo perché ha trascorso parte dell’ infanzia sulle montagne dell’ Appennino, perché ama la vita solitaria, perché gira di notte coi suoi cani, o semplicemente per il carattere?
«Il documentario lo spiega. Nella mia infanzia il lupo è stato l’ animale magico, l’ Avatar.
Gli ululati nel film sono miei, il fonico era quasi spaventato».
Come sono stati identificati i “testimonial” amici intervenuti nel film?
«Li abbiamo scelti insieme, io e la regista. Purtroppo qualcuno è rimasto fuori ma contiamo sulle Avventure del Lupo 2 e su Lupo 3 la vendetta. Il mio obiettivo non è Proust, è Rambo».
La struttura del documentario è dialettica, e lei parla con ognuno degli altri?
«Enza e io ci siamo divertiti a trovare linguaggi diversi. Ci sono dialoghi, c’ è la mia voce fuori campo, ci sono paesaggi, poesie, brani teatrali, vecchi filmati, fotografie e anche quattro brevi cartoni animati di Luca Ralli».
Prendendo spunto dalle persone di cultura che appaiono nel film, conferma d’essere stato lei a introdurre Pennac alla Feltrinelli e a farlo diffondere da noi? Che rapporto s’ è stabilito con Baricco le cui opere sono state frequentemente oggetto di suoi reading? Cosa ha significato essere stato autore teatrale di Lucia Poli e Angela Finocchiaro?
«Pennac sarebbe arrivato in Italia anche senza di me. Con Baricco siamo serissimi quando lavoriamo insieme, fuori dal lavoro ci divertiamo a prenderci in giro. Lucia Poli e Angela Finocchiaro sono state le mie severe maestre di teatro insieme a Giorgio Gallione. E poi ci sono Gianni Usai, che è il mio maestro di cucina e di pratica politica, e Grazia Cherchi, che è stata un dono del cielo, quella che mi ha insegnato a credere davvero nella mia scrittura».
Che tipo di attrazione esercita su di lei, la scena, il teatro?
«La scrittura è spesso solitaria e si crede onnipotente. È bello confrontare – e scontrare – il talento con quello degli altri. Non parlo solo di attori e musicisti. Il mio fonico Fabio Vignaroli mi ha insegnato questa semplice verità: “Se in un reading c’ è un bravo attore, un formidabile musicista, un testo intenso, ma il pubblico non sente niente, allora ti saluto il reading”».
In questa biografia filmata si afferrerà bene il suo amore per la musica, comprovato da “Misterioso” dedicato a Thelonious Monk, “Sagrademari” con Paolo Fresu, una versione quasi rock della “Terra desolata” di Eliot, oltre a un binomio con Nick Cave, ai lavori con pianisti e jazzisti, e a una poesia scritta in morte di David Bowie.
«Il mio amore per la musica è evidente. Ovviamente i pezzi dei miei maestri sacri non ci sono, i diritti, ahimè, costavano troppo. Però c’è la colonna sonora di Fausto Mesolella, di Umberto Petrin, di mio figlio Niclas, di Giulia Tagliavia, tutte persone che sono salite sul palco con me».
Ha diretto Dario Fo (oltre che Paolo Rossi) nel film “Musica per vecchi animali”: qui compaiono sia Fo che Franca Rame.
«Sì, anche in versione hot, in costume da bagno».
Ora è in tournée con Angela Finocchiaro in “Bestia che sei”. I prossimi impegni? «Porterò in scena Julio Cortázar, una cosa che sognavo da tempo. E poi sto scrivendo un poema, molto più feroce di Blues in sedici. Quattro versi al giorno, ma implacabilmente».
Dietro la comicità di molti suoi testi, che cosa c’è?
«Dopo tanti anni, direi che c’è il tentativo di raccontare agli altri sogni e idee, di coltivare la medicina dell’ironia e soprattutto di ridere e far ridere. Dato che ne ho passate di tutti i colori, credo di esserci riuscito, anche se un po’ di comicità l’ho persa per strada».
La Repubblica, 10 ottobre 2018