L’attuazione della Costituzione

01 Marzo 2017

L’esito del recente referendum costituzionale rappresenta (visto anche insieme all’esito del precedente analogo referendum del 2006) una conferma del perdurante e vasto consenso popolare nei confronti della nostra Carta.

Tuttavia, il cammino per la completa attuazione della Costituzione, nella parti mai attuate o entrate in crisi di recente, non è ancora compiuto, ed appare quanto mai in salita.

Un primo profilo riguarda l’architettura degli organi essenziali dello Stato repubblicano, in primo luogo il Parlamento, ed a tal proposito non si può fare a meno di parlare della legge elettorale, sulla quale il dibattito è assai vivo ed attuale.

Come tutti ricorderete, il Parlamento attuale è stato eletto tramite la legge Calderoli (c.d. “porcellum”), dichiarata incostituzionale nel 2014 per contrasto col principio di rappresentanza, in quanto prevedeva un premio di maggioranza alla coalizione che avesse conseguito il maggior numero di voti, senza prevedere una soglia minima di consensi per poter conseguire il premio stesso, oltre a liste bloccate senza preferenze.

A seguito di ciò è stata approvata una nuova legge elettorale, il cosiddetto “Italicum”, a sua volta “colpito” da una recente sentenza della Corte costituzionale, che, annullando il meccanismo di ballottaggio, ma lasciando in piedi il premio di maggioranza per la lista che abbia raggiunto il 40%, lascia aperta la strada a molteplici soluzioni, che in ogni caso dovranno rispondere al problema, posto dallo stesso Capo dello Stato, che i due sistemi elettorali di Camera e Senato non siano eccessivamente divaricati (perché, sia chiaro, perfettamente eguali non potranno mai essere, dato che, per volontà della Costituzione, il Senato è eletto su base regionale e la Camera no), e questo al fine di non dar luogo a maggioranze del tutto diverse tra l’una e l’altra Camera.

Le possibili opzioni in campo contemplano in primo luogo un ritorno alla proporzionale pura (con le preferenze), che pochi giorni fa, su “La Repubblica”, il prof. Zagrebelsky (ormai noto anche al grande pubblico per il suo impegno nella campagna referendaria in favore del NO) dava come preferibile e come più probabile. Tale scelta segnerebbe un ritorno alla cosiddetta “prima repubblica”, con la scarsa probabilità di maggioranze chiare che escano dalle urne (specie oggi, con un sistema politico divenuto tripolare), e un danno per la cosiddetta “governabilità”: ma, avverte Zagrebelsky, “Governare è dei governanti. Sono loro a dover garantire la governabilità e non c’è nessun marchingegno elettorale che può garantirla in carenza di senso di responsabilità, come dovremmo sapere noi in Italia senza possibilità di sbagliarci. Occorreranno coalizioni e compromessi? È probabile. Ma le coalizioni e i compromessi non sono affatto cose negative, sono anzi nell’essenza della democrazia pluralista: dipende da chi le e li fa, in vista di quali obbiettivi e a quali condizioni. Non sono necessariamente “inciuci”, per usare il nostro squallido linguaggio”.

Un’altra opzione è invece quella del ritorno ad un sistema basato sui collegi uninominali, visti come utili a meglio collegare i parlamentari al territorio, e come stimolo alla presentazione di candidature valide; magari con correttivi proporzionalistici simili a quello che caratterizzava il cosiddetto “Mattarellum”, ossia la legge elettorale approvata in vista delle elezioni del 1994 su impulso dell’odierno Presidente della Repubblica, legge che non solo assegnava una quota dei seggi (1/4) col sistema proporzionale, ma prevedeva anche il cosiddetto “scorporo”, tendente a compensare i piccoli partiti rimasti svantaggiati nei collegi. Non mancano proposte volte ad un ulteriore correttivo proporzionalistico del sistema (assegnazione del 50% dei seggi col sistema proporzionale) o ad un ritorno al sistema usato per l’elezione del Senato fino al 1992, che combinava i collegi uninominali con la proporzionale, dato che venivano eletti direttamente nel collegio solo i candidati che vi avessero riportato il 65%.

Quale che sarà la soluzione adottata, bisogna riflettere sul fatto che difficilmente potrà aversi quel sacrificio della rappresentanza che il cosiddetto Italicum prevedeva a favore del principio della governabilità, ossia difficilmente potrà sapersi chi formerà il governo la sera stessa delle elezioni, secondo un ripetuto slogan, e quindi – specialmente in un sistema, come si diceva, tripolare – facilmente si tornerà ad una politica fatta di accordi di coalizione; il che non è per forza di cose un male, proprio dal punto di vista dell’attuazione della Costituzione, visto che nelle trattative per formare coalizioni possono tenersi presenti, e combinarsi tra loro, gli aspetti migliori (in quanto più accettabili da parte degli altri) dei singoli programmi politici. L’Italia ha vissuto per 40 anni con governi di coalizione, e molti importanti progressi sociali, oltre a gran parte delle leggi di attuazione della Costituzione, sono stati fatti con quel sistema di governo.

Sempre sul piano elettorale, meritano di essere ripensate le modalità di elezione dei parlamentari da parte degli italiani all’estero, applicabili anche ai referendum. Tali modalità, come è stato autorevolmente messo in luce durante la recente campagna referendaria, non garantiscono la segretezza del voto, imposto dall’art. 48 della Costituzione, poiché prevedono l’invio per posta delle schede elettorali al domicilio dei residenti all’estero, che, dopo aver votato, le rispediscono ai consolati italiani, sempre per posta. In tali condizioni, qualsiasi irregolarità è possibile. Non si vede per quale motivo non si possa prevedere l’allestimento, nei consolati italiani all’estero, di normali seggi elettorali, dotati di regolari cabine che assicurino il voto segreto, come quelli che si allestiscono nelle scuole italiane in patria. E’ ovvio che la diffusione territoriale dei consolati italiani nel mondo non è paragonabile a quella delle scuole elementari in Italia, ma qualche modesto disagio per recarsi a votare deve ritenersi un inevitabile prezzo da pagare per ottenere la genuinità e correttezza dell’espressione elettorale.

Occorrerebbe infine rivalutare il principio, sancito dall’art. 48 secondo comma della Costituzione, secondo cui l’esercizio del voto è dovere civico. Un tempo, sulla base di tale previsione, esistevano sanzioni non penali, ma dirette ad una sorta di “moral suasion”, come l’iscrizione del non voto sul certificato di buona condotta (ora abolito), la richiesta di giustificazioni da parte dei Comuni all’elettore che non aveva votato, l’affissione ad un albo dei nomi dei non votanti. Il diffondersi dell’astensionismo è stato al contempo causa ed effetto del venir meno di queste modeste sanzioni, favorito, da un lato (cioè dal basso) dalla sfiducia dilagante nelle istituzioni e nella politica, e, dall’altro (cioè dall’alto…) dall’inconfessato desiderio che la sovranità popolare si eserciti il meno possibile. L’aumentato afflusso al recente referendum costituzionale fa ben sperare che i cittadini stiano riacquistando consapevolezza dell’importanza di esprimere il voto, e della sterilità dell’astensionismo come forma di protesta; tuttavia questa ripresa potrebbe essere incoraggiata anche dal ripristino di qualche modesto fastidio per chi si sottragga al dovere civico in questione.

Sul piano delle autonomie locali, l’esito del referendum costituzionale sul fronte delle Regioni potrà consentire il consolidarsi della giurisprudenza costituzionale sorta sull’interpretazione della riforma del 2001, mentre s’imporrà, molto probabilmente, un ripensamento della riforma Del Rio che ha riguardato le province, e che era stata pensata nella prospettiva di un’abolizione delle stesse, propugnata da una campagna di opinione che partiva dal celebre libro “La Casta” di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, del 2007, a mio parere basata più su suggestioni che su dati obiettivi. Il risultato è stato che, senza abolire del tutto gli enti, li si è privati dei fondi necessari per provvedere all’asfaltatura di 130.000 km. di strade, e alla manutenzione di 5.000 scuole (cito dall’intervista del presidente dell’UPI, Variati, sul Mattino di Padova del 9.2.17), compiti che sono rimasti loro assegnati perché probabilmente, per alcuni servizi, un ambito intermedio tra quello regionale e quello comunale è necessario; mentre le loro amministrazioni sono state rese non più direttamente elettive, col paradossale risultato che, in nome della lotta alla casta, gli organi di governo provinciali sono ora cooptati dalla casta stessa. La perdurante copertura costituzionale dell’istituto potrebbe suggerire un ripensamento di tale assetto.

Sul piano dei contenuti dell’azione politica e legislativa, si deve tornare a rimarcare il principio, contenuto nell’art. 1 della Costituzione, secondo cui la Repubblica è fondata sul lavoro. Conseguenza immediata di tale principio è l’affermazione del diritto al lavoro, contenuta nell’art. 4, e del compito, spettante alla Repubblica, di “promuovere le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Tale previsione significa, a mio avviso, che le istituzioni repubblicane, ad ogni livello, devono svolgere una politica finalizzata alla piena occupazione, principio che un tempo ricorreva frequentemente nei programmi politici, e che oggi è divenuto quasi desueto. Come ha recentemente ricordato Tomaso Montanari, Guido Carli, che era un liberale, annotava nei diari il proprio disagio perché, nei negoziati che avrebbero portato al Trattato di Maastricht, si imponeva l’orientamento che il fine della moneta comune fosse unicamente la stabilità dei prezzi, senza alcun riferimento ai livelli occupazionali, che egli cercava inutilmente di far menzionare. Tale lacuna nelle finalità della costruzione europea, pervasa dall’ossessione anti-inflazionistica (che ha tra l’altro suggerito anche la modifica dell’art. 81 della stessa costituzione italiana), pone il problema non più a lungo eludibile della compatibilità tra Costituzione italiana e trattati europei, e più in generale della tenuta delle istituzioni europee, che talune pronunce popolari già avvenute (penso al referendum sulla Brexit, ma anche ai meno recenti referendum francese e olandese sul progetto di costituzione europea), e altre che si prospettano nell’immediato futuro, sottopongono a tensioni sempre crescenti.

Il fondamentale rilievo del lavoro, oltre che dalle norme già richiamate (articoli 1 e 4), viene poi sviluppato dalla nostra Costituzione negli articoli 35, 36, 37, 38, 39, 40 e 46. Molti di questi articoli sono in gran parte inattuati. Il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro, e sufficiente ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa, così come i diritti collegati del riposo settimanale e delle ferie (art. 36), e, ultimi ma non meno importanti, quelli specifici della donna lavoratrice, specialmente in caso di maternità (“le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”: art. 37 secondo comma) sono messi in discussione dalle forme di precariato che sempre più diffusamente, a partire dagli anni ’90, sono state introdotte, non ultima quella dei voucher che sarà oggetto di un prossimo referendum abrogativo, oltre che dal più generalizzato attacco ai diritti del lavoro.

I diritti previdenziali e assistenziali, previsti dall’art. 38, sono stati seriamente minati dall’ideologia neo-liberista e dalle politiche di austerità, che, insieme alla pur giusta eliminazione di sprechi e privilegi, hanno finito per compromettere il diritto ad una pensione che assicuri, in caso di vecchiaia, “mezzi adeguati alle esigenze di vita” dei lavoratori anziani. Il sistema contributivo, in particolare, rischia di rappresentare una sorta d’inganno, se non si considera che, dato un certo ammontare di contributi versati, la pensione conseguente risulta sempre dall’applicazione su tale montante di un tasso percentuale di rendimento, la cui misura non è frutto di leggi naturali, come si vorrebbe far credere, ma è frutto di scelte legislative che, rinviando a successivi atti amministrativi fuori da ogni controllo democratico, rischiano di determinare in futuro livelli pensionistici così bassi da ricordare la situazione descritta da De Sica e Zavattini nel noto film “Umberto D.”, che tante preoccupazioni destò nei governanti dell’epoca.

Ineludibile è poi una seria attuazione dell’art. 38 laddove prevede che “mezzi adeguati alle loro esigenze di vita” siano assicurati ai lavoratori anche in caso di “disoccupazione involontaria” (oltre che di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia). Ciò introduce il tema del “reddito di cittadinanza” o “reddito di dignità” che dir si voglia, cioè di uno strumento di tipo universalistico che consenta di sopravvivere anche a chi resta senza lavoro, evitando che la disoccupazione debba tradursi nella miseria. Strumenti di questo tipo esistono in tutti i paesi avanzati, specialmente in Europa; la loro mancanza proprio in Italia, oltre che in Grecia, può essere attribuita anche ad un fraintendimento del primato del lavoro sancito dalla stessa Costituzione, la quale, come si è appena visto, pur imponendo una politica di piena occupazione, prevede poi che, essendo questo un obiettivo solo tendenziale e non sempre di fatto raggiunto, siano altrimenti corrisposti mezzi adeguati anche ai disoccupati. Un’altra spiegazione, spesso non detta, del ritardo su questo fronte, va vista nel timore di abusi, che però vanno evitati (come per qualsiasi altra prestazione del welfare, che rischia di finire anche a chi non ne ha bisogno) tramite una rigorosa individuazione degli aventi diritto, ed un ancor più rigoroso sistema di controlli e sanzioni, senza che possa tradursi in un alibi per lasciare inattuata questa parte della Costituzione.

Naturalmente, l’attuazione di una seria politica di welfare deve essere adeguatamente finanziata soprattutto attraverso il sistema fiscale, stanti i problemi che comporterebbe un aumento del debito, anche a non voler seguire i fautori dell’austerità ad oltranza. E qui si apre l’enorme problema dell’attuazione dell’art. 53 della Costituzione, che, oltre ad imporre a tutti di contribuire alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva, dispone che il sistema tributario sia informato a criteri di progressività. Ebbene, negli ultimi decenni si è fatto molto non per attuare questo indirizzo della Costituzione, ma per boicottarlo: da un lato, coi frequenti e ripetuti condoni, si è alimentata una speranza d’impunità a basso costo, disincentivando e demoralizzando gli onesti; dall’altro, con la continua riduzione delle aliquote riguardanti gli scaglioni più alti di reddito (l’aliquota massima è scivolata gradualmente, passo dopo passo, dal 72% degli anni ’70 al 43% di oggi), e con la soppressione o quasi delle imposte di successione, si è contrastato in ogni modo il criterio di progressività e la finalità redistributiva delle imposte, in ciò seguendo le politiche neo-liberiste affermatesi un po’ dovunque nel mondo. Anche sotto questo profilo ci dovrà essere una seria inversione di tendenza, che ripristini politiche fiscali costituzionalmente orientate.

Molto resterebbe da dire (e da fare) anche in altri campi, da una legge per l’attuazione dell’art. 39 della Costituzione, che consenta la registrazione dei sindacati e il controllo della loro effettiva rappresentatività, ai fini della stipulazione di contratti collettivi con efficacia obbligatoria generalizzata, ad una legge che adegui la disciplina interna dei partiti politici al criterio del metodo democratico previsto dall’art. 49, all’attuazione del diritto di partecipazione dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende (previsto dall’art. 46) come avviene da più di mezzo secolo in Germania (paese preso ad esempio solo quando fa comodo).

E a questo punto, vorrei anche aggiungere che si dovrebbe porre termine a quella assuefazione alle manifestazioni di apologia del fascismo che lentamente ha preso piede, soprattutto da quando gli ex-fascisti, o post-fascisti che dir si voglia, furono riammessi al governo. La notizia odierna che la Germania ha rifiutato di concedere un riconoscimento ai poliziotti italiani che avevano compiuto una pur meritevole azione anti-terrorismo, perché nei loro profili sui “social” comparivano esempi di tale apologia, dovrebbe farci seriamente riflettere, sia sull’indifferenza sempre più diffusa da noi di fronte a tali espressioni, sia sul grado di lealtà democratica e antifascista che si deve pretendere da tutti i servitori dello Stato: i gravi fatti del G8 di Genova ci ricordano a quali conseguenze possa portare l’abbassare la guardia su questo fronte.

Ma un esame completo di tutte le tematiche connesse all’attuazione della Costituzione esorbiterebbe dal tempo che mi pare giusto prendere. Posso quindi concludere con l’auspicio che il rinnovato clima politico che si è aperto dopo il referendum costituzionale comporti una nuova stagione di attuazione della Costituzione, nel solco di quella Resistenza, di cui l’ANPI mantiene viva la memoria, e in cui la Costituzione stessa trova le sue più profonde radici.

 

(*) Pubblichiamo il testo dell’intervento di Marco Modena, socio del Circolo LeG di Firenze, pronunciato il 12 febbraio, durante un’iniziativa dell’Anpi a Rufina (Firenze)

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