L’Europa e il ripudio dei suoi Lumi

01 Luglio 2016

Roberta De Monticelli Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Con l’assassinio della deputata Jo Cox,  l’ombra della follia era parsa distendersi sullo stesso referendum che ha condotto alla Brexit. Un paradosso, che proprio dall’Inghilterra fosse partita quest’onda emotiva, non di cuore ma di pancia. Perché proprio dall’Inghilterra era venuta la luce decisiva per il pensiero federalista di Spinelli.

Lo ricorda lui stesso nell’autobiografia (“Come ho tentato di diventare saggio”, Il Mulino, 1983): “Poiché andavo cercando chiarezza e precisione di pensiero -scrive- la mia attenzione non fu attratta dal fumoso e contorto federalismo ideologico di tipo proudhoniano o mazziniano, ma dal pensiero preciso e pulito di questi federalisti inglesi, nei cui scritti trovai un metodo assai buono per elaborare la situazione in cui l’Europa stava precipitando, e per elaborare prospettive alternative”.

Ben poco di questa razionalità sembra sopravvissuto nei commenti agli eventi di questi giorni. E parliamo di ragion pratica, cioè dell’ideale di attuare pace e giustizia insieme alla democrazia, nel mondo globale di oggi. Scelgo due esempi che mi sembrano paradigmatici del discredito in cui versa oggi la dolce luce dei Lumi, tanto a destra quanto a sinistra, perfino fra gli intellettuali che dicono di apprezzare gli ideali di Spinelli.

Poco prima della Brexit Ernesto Galli della Loggia, auspicando che vincessero i filo-europeisti, delineava una specie di agone cosmico fra la Storia e l’Economia, ovvero il Passato e le comuni radici di lingua, cultura, costumi, e il Futuro: la crescita del Pil e della spesa pubblica, il Welfare, che le éliteseuropee -questa la tesi- avevano inevitabilmente ma sciaguratamente preferito all’ancoraggio al Passato e alle Radici, scavandosi la fossa da sole. Perché questo aveva ridotto la cultura condivisa a “un insieme di ambiziose velleità universalistiche”.

Infatti la vera ragione per augurarsi che il Regno Unito restasse nell’Unione è che loro, sì, sanno rendere omaggio al passato e alla storia. Hanno una Regina, che è oltretutto Capo della Chiesa, e non si sono mai preoccupati di rinnegare la propria superiore identità cedendo al “politicamente corretto”, “fosse pure quello dell’accoglienza” (Corriere della Sera, 19/06/2016). E pazienza se in questo modo sono liquidate come velleità, senza lo straccio di un argomento, quelle ambizioni universalistiche che definiscono la ragione, da Socrate fino a Bertrand Russell e ad Altiero Spinelli.

A questo pezzo faceva involontariamente eco, sullo stesso giornale, un pezzo di Natalino Irti, che si è guadagnata la fama di “nichilista giuridico” per via della curiosa teoria che, essendo il diritto radicato nel passato e nelle tradizioni, al declino delle tradizioni e di Dio segue necessariamente l’infondatezza della legge. L’autore osservava che la legalità uccide quando non è sostenuta dalla volontà del re, che esprime la comunità. Insomma l’imperio della legge non sta nella legge ma nel re, anche quano il re è il popolo. Puro decisionismo schmittiano, alla faccia della vita spesa da Spinelli per costruire un Parlamento europeo.

Con questo guizzo populistico l’articolo faceva da trait d’union fra il polo conservatore e quello dialettico-rivoluzionario dell’irragionevolezza, rappresentato dal filosofo francese Michel Onfray (e da quanti suoi emuli italiani?), che in un’ampia intervista comparsa subito dopo la Brexit (Corriere della Sera, 26/06/2016) accusava la macchinazione universale del liberalismo “populicida” (sic), che imbroglia le carte e presenta come xenofobia la semplice democrazia: “governo del popolo, attraverso il popolo, per il popolo”.

Anche se non si capisce bene a cosa serva l’imbroglio di “un’oligarchia di burocrati al servizio del capitale”, dato che, ci avverte Onfray, lui ha appena terminato di scrivere un libro di mille pagine su Decadenza. Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana, in cui ci spiega che “l’Europa è morta, ecco perché gli uomini vogliono farla”. Un salto piuttosto acrobatico, anzi dialettico. Ma vanno benissimo a braccetto, le due posizioni. Felici come sono di gettar via i pilastri della ragion pratica, cioè l’universalismo morale, che dovrebbe accogliere radici e tradizioni entro i limiti del giusto, e il principio di autonomia e responsabilità personale, che si oppone alla potenza arcana delle personificazioni, come la macchinazione universale (giudeo-plutocratica?) o il popolo che è origine, mezzo e fine, insomma dio.

Concludo questa riflessione con un ritratto che Spinelli fa di Ernesto Rossi, il candido illuminista, di mestiere economista, che voleva una democrazia sovranazionale e un libero mercato, ma vincolato dall’idea di giustizia: “Aveva, come me, assai forte il senso dell’oceano insondabile di irrazionalità, di ferocia, di stupidità, di ignoranza, di desiderio di morte da dare e da incontrare, e d’altro ancora. Era assai consapevole che il piccolo mondo luminoso della ragione creato dagli uomini emerge da questo caos, il quale si agita perennemente intorno ad esso minacciando di inghiottirlo di nuovo”.

Nata a Pavia il 2 aprile 1952, è una filosofa italiana. Ha studiato alla Normale di Pisa, dove si è laureata nel 1976 con una tesi su Edmund Husserl.

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