Conoscere la memoria e praticare la speranza. Così può rinascere una vera sinistra

21 Lug 2018

Tomaso Montanari

E dimmi, dimmi – tu, cosa ne pensi? 

Un tempo, neppure poi troppo lontano, 

ci intendevamo, accomunati 

dalla lingua della medesima tribù. 

Veniva a tutti spontaneo, naturale, 

opporsi ad ogni forma di abuso 

e prepotenza. Perché poi tanti tra noi 

si sono fatti sordi e ciechi, 

appagati di appartenere 

alla ristretta cerchia dei salvati? 

Allora è vero che era solo 

la coperta dell’ideologia 

a tenerci al caldo, uniti. 

Adesso che quella coperta 

si è stracciata, ciascuno viaggia nudo 

e ciascuno risponde per suo conto. 

Il coro tace, si è fatto solitario il canto. 

FRANCO MARCOALDI, Tutto qui, Einaudi, 2018 

La politica di Andrea Ranieri si nutre di parole e di pensieri non troppo lontani da quelli di Franco Marcoaldi: il sindacalista e il poeta, «accomunati dalla lingua della medesima tribù». Analisi e sentimento, visione del passato e del futuro, giudizio su stagioni e su protagonisti: ecco cosa tiene ancora insieme ciò che resta della tribù della sinistra. Parola, quest’ultima, che verrebbe quasi voglia di non usare più: limitandosi «a parlare dalla parte del cuore (che sta a sinistra)» (Roberto Longhi).

Una tribù battuta, dispersa, dissanguata dai suoi stessi mille tradimenti: eppure ancora viva per la più elementare delle ragioni. E cioè che, in un mondo sempre più terribilmente ingiusto e diseguale, a qualcuno – a molti – viene «spontaneo, naturale opporsi ad ogni forma» di ingiustizia.

Il libro che avete appena letto – un libro forte e vero, a tratti poetico e comunque ardente e insolitamente alto per il discorso politico italiano di oggi – è fatto di queste due cose, indissolubilmente intrecciate: le ragioni e i sentimenti di chi, fin da bambino, credeva in «un comunismo dalla parte dei deboli, e della ragione che vinceva sempre sul torto». Un «comunismo da preti», sempre e comunque dalla parte dei poveri: senza mai «imparare la lezione».

È proprio questa la ragione della mia presenza in fondo a questo libro, e prima ancora è questa la ragione per cui Andrea e io ci siamo incontrati, al Brancaccio: la mia personale, totale sintonia con questa idea della politica. Un’idea a cui non sono arrivato da una tradizione comunista, ma cattolica (Don Milani e Dossetti, su tutti) e semmai dalla parte dell’azionismo socialista e aperto al dialogo con il Partito Comunista (Carlo Rosselli, Emilio Lussu, Carlo Levi e Piero Calamandrei, ad esempio). Un radicalismo civile e politico che ha nella Resistenza la sua legittimazione storica, e nel testo della Costituzione il suo manifesto «polemico contro lo stato delle cose» (Calamandrei).

La politica in cui crede Andrea Ranieri, e in cui credo anch’io, parla una lingua diversa, lontana mille miglia da tutto ciò che si legge sui giornali e si vede in televisione. Una politica capace di far scorrere il sangue nelle vene, la politica di cui scriveva Carlo Levi nell’Orologio (1950), un libro, magnifico e dimenticato, tutto dedicato alla crisi del governo Parri (1945), il governo della Resistenza, e all’avvento del governo “di sistema” di De Gasperi. In un passo chiave di quel libro, Levi oppone ai tatticismi di due giovani politici che stanno per prendere il potere, l’idea – e direi il sentimento – della politica di Parri:

Mi esponevano i loro progetti, i passi che avevano fatto, le manovre a cui ci si doveva opporre, le intenzioni nascoste dei capi, gli interessi che si celavano sotto le manovre: e tutto questo mi pareva che si svolgesse in quel cielo nel quale anch’io forse talvolta mi illudevo di trovarmi, popolato di strani uccelli, in lotta tra loro, nell’atmosfera solitaria… Da quell’altezza essi non vedevano la terra che come un fumo lontano: e come avrebbero potuto distinguere in quel fumo, a quella distanza, i visi degli uomini e delle donne che si muovevano nelle città, che zappavano i campi, che lavoravano negli uffici e nelle fabbriche, che si disputavano il denaro, che mangiavano, che facevano all’amore? Come avrebbero potuto, di lassù, vedere la faccia di Teresa, dietro il suo banco, sull’angolo della strada; e i geloni della sue mani al primo freddo dell’inverno? Il presidente, invece, il presidente caduto non volava in quel cielo: non voltava neppure gli occhi a guardarlo, ma camminava sulla piccola terra. E non sapeva né voleva vedere altro che i geloni di Teresa, il viso di Teresa. E le facce, le mani di tutti quelli che incontrava sulla sua strada. E si fermava a parlare con loro, dimenticando ogni altra cosa, piangendo le loro lacrime. Che cosa si poteva fare? Come si potevano mettere insieme cose così disparate: gli uccelli, il presidente e Teresa? Come si sarebbe potuto risolvere quella crisi, che era assai più che un cambiamento di ministero ma il segno della presenza di cose senza comunicazione, di tempi diversi e reciprocamente incomprensibili. Mi veniva in mente il libro di aritmetica delle scuole elementari che affermava (ma questa affermazione né allora quando ero bambino né poi mi riuscì mai del tutto persuasiva) che non si possono sommare beni di diversa natura, che non si può dire per esempio cinque pagnotte di pane più tre rose fanno che cosa? Non fanno niente, secondo questo venerabile testo. Eppure c’era stato un momento in cui gli uomini si erano sentiti tutti uniti fra di loro, e col mondo. Quel momento non era finito del tutto: continuava nella gente che imparava a vivere negli errori e nei dolori, e che frugava tra le macerie sapendo di esistere.

Fa una certa impressione rileggere questa pagina oggi, in un momento in cui il voto popolare, un voto antisistema e di popolo, ha portato al governo del Paese un partito come la Lega, pesantemente segnato da tratti razzisti e fascisti. Ma sbaglieremmo se dimenticassimo che questo è l’esito – il peggiore possibile – di una lunga stagione di negazione radicale del progetto costituzionale. Una stagione difesa dall’establishment italiano fino all’ultimo momento possibile, come ha reso evidente il discorso che Sergio Mattarella ha fatto il 27 maggio 2018: a distanza di settant’anni dagli eventi descritti da Levi, il popolo che fruga tra le macerie della sinistra, e soprattutto tra la macerie del progetto della Costituzione, ha ascoltato un altro presidente dire in diretta tv la verità su tutto quello che ci è successo.

Un discorso che sarà ricordato molto a lungo: sicuramente come uno svelamento drammatico dei reali rapporti di forza che governano la postdemocrazia italiana. Sergio Mattarella ha squarciato, in diretta televisiva, il “velo del diritto”, parlando dei veri rapporti di forza che reggono il mondo in cui viviamo: ma «squarciare il velo del diritto – ammoniva Hans Kelsen – è pericolosissimo: dietro quel velo si cela infatti la Gorgone del potere, capace di pietrificare col suo sguardo chi se la ritrova dinnanzi» (così il costituzionalista Francesco Pallante, in un acuto e puntuale commento uscito sul «Fatto Quotidiano» del 31 maggio 2018). Mattarella ha tracciato esplicitamente una linea che sottrae alle Camere appena elette, e agli esecutivi che da esse riceveranno una fiducia, una scelta cruciale: quella di una possibile uscita dalla moneta unica europea. Per tutelare la “sovranità italiana” si può sospendere la “sovranità popolare”, sembra dire Mattarella. In nome dei rapporti internazionali si può dunque arrivare a travalicare «le forme e i limiti previsti dalla Costituzione» perché la sovranità del popolo venga esercitata (esercitata ad esempio nei cruciali passaggi che trasformano l’esito elettorale in un governo dotato di autonomo indirizzo politico). Se il lungo discorso del presidente ha esplicitato il fatto che egli si è assunto la responsabilità di decidere l’indirizzo politico del governo, entrando nel merito di idee e di scelte politiche (così non rispettando spirito e lettera della Costituzione), le sue motivazioni hanno formalizzato una dura verità: la sovranità dei mercati ha preso il posto della sovranità popolare, riscrivendo di fatto l’articolo 1 della Costituzione. Così la “costituzione materiale”, intesa come lo stato delle cose, con i suoi pietrificati rapporti di forza, ha preso anche formalmente e solennemente il posto della Costituzione scritta. L’ incarico di formare il governo brevemente conferito al commissario Carlo Cottarelli, scelto per la sua storia personale al Fondo Monetario Internazionale e dunque incarnazione simbolica dell’ordoliberalismo internazionale, ha infine tratteggiato icasticamente l’immagine di una democrazia commissariata.

E c’è anche il rovescio della medaglia: forse ancora peggiore. Nel suo discorso Mattarella ha detto che aveva accettato tutti i ministri tranne quello dell’Economia. Tutti: anche Matteo Salvini (noto per aver espresso più volte opinioni xenofobe o francamente razziste e per aver esercitato una pubblica apologia del fascismo) all’Interno. In questo doppio registro c’è il senso profondo della crisi generale in cui siamo sprofondati: si tutelano i soldi («i risparmi degli italiani»), non i corpi. L’articolo 47 e non – ad esempio – gli articoli 1, 3, 10. Gli investitori, non i principi fondamentali della Carta. È una dittatura dei mercati in cui le vite, i diritti, l’eguaglianza contano meno di zero.

Ed è qui, è proprio in questa sottrazione di democrazia e in questa generale genuflessione al potere del denaro che appare, con chiarezza lacerante, l’assenza di ogni sinistra: un’assenza certificata dal plauso del PD e di Liberi e Uguali a Mattarella. Ed è ancora qua che la propaganda della Lega prospera e macina consenso. Questa costituzionalizzazione dello stato delle cose – questa santificazione della mancanza di alternativa che l’acronimo TINA, There is no alternative, ha reso simbolo e cifra della lunga stagione del dominio del mercato sulle democrazie – nega le ragioni più profonde del progetto costituzionale italiano: perché in quel progetto è iscritta la necessità di un ribaltamento dei rapporti di forza attuali. Perché «c’è una parte della nostra Costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società presente. Perché quando l’articolo 3 vi dice: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” riconosce che questi ostacoli oggi vi sono di fatto e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la Costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la Costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani» (Piero Calamandrei).

Ora, in questo dramma, senza eroi positivi, in cui alla conservazione eversiva del presidente della Repubblica si è opposto lo scardinamento anch’esso eversivo della destra, manca del tutto un attore: una qualsivoglia sinistra. Che non voglia svellere, ma attuare il progetto della generazione della Resistenza: che si chiama Costituzione.

«Cose senza comunicazione, di tempi diversi e reciprocamente incomprensibili» scriveva Levi: parole perfette per descrivere i rapporti che oggi intercorrono tra le ragioni dei poveri e le ragioni della “sinistra” politica ufficiale in Italia. Come milioni di altri italiani “di sinistra”, Ranieri ha rigettato ciò che la “sinistra” ha costruito in occasione delle elezioni del marzo 2018. Le pagine in cui egli racconta in dettaglio come e perché questo è avvenuto sono limpide e utili: perché dicono la verità. Non intendo qua aggiungere molti dettagli, o infierire su figure politiche che hanno pagato i loro errori e le loro colpe con un prezzo assai alto: la perdita di ogni credibilità presente e futura, e dunque di ogni rilevanza politica. Ma Ranieri ha fatto bene a rendere indelebile la cronaca di questo suicidio: perché sia chiaro che il tradimento cui abbiamo assistito non si deve ripetere ancora. Un tradimento, non ci sono altre parole, perché anche Liberi e Uguali si è schierato dalla parte – usiamo ancora le parole di Marcoaldi – della «ristretta cerchia dei salvati »: quella già da tempo difesa dal Partito Democratico, da un blocco rilevante di firme di «Repubblica» e da quasi ogni voce udibile nel discorso pubblico italiano, con pochissime eccezioni (tra le quali Papa Francesco, don Luigi Ciotti e un ristretto gruppo di intellettuali, tra i quali si possono citare Erri De Luca, i Wu Ming o Alessandro Leogrande, che manca già così tanto…).

Con la “sinistra” dalla “parte della ragione” e dell’ordine dell’euro, la parte del torto e del popolo è stata lasciata tutta al Movimento 5 Stelle e alla Lega: che hanno vinto. È terribile doverlo ammettere, ma quello che è successo alle elezioni italiane del 2018 è che c’è stata finalmente una fortissima affermazione di una santa rabbia anticonformista, di una rivolta antisistema, di una determinazione a rovesciare radicalmente lo stato delle cose. Solo che tutto questo non ha preso la strada della sinistra, ma quella del Movimento 5 Stelle e della Lega. Liberi e Uguali e perfino Potere al Popolo non hanno saputo proporre alcuna speranza. Il Movimento 5 Stelle, invece, l’ha fatto. È riuscito a trasmettere una sola speranza: quella del cambiamento. Anzi, di un rovesciamento: la speranza che l’alto sarebbe diventato basso, e il basso alto. Il dentro fuori, e il fuori dentro. Anche la Lega ha saputo proporre una speranza: una speranza nera, però. Una speranza che non riguardava l’avvicendamento al potere, ma l’eliminazione dei nemici: i migranti, l’Europa, Papa Francesco. E non è stato un voto di opinione, è stato un voto sociale: un voto in cui è tornata la lotta di classe. Senza programmarlo, senza tematizzarlo, senza nemmeno dirlo. Anche se non lo sanno, anche se non sono interessati a vedersi così, i 5 Stelle e la Lega sono di fatto partiti delle classi subalterne. E anche di quelle più consapevoli e impegnate: come è ben noto, il 33% degli iscritti alla CGIL ha votato per i 5 Stelle, e il 10% addirittura per la Lega. Partiti votati in massa dagli ultimi, dai sommersi o da coloro che sono sul filo del galleggiamento (iniziando dai giovani precari, i nuovi schiavi), in un Paese con 18 milioni di cittadini a rischio di povertà (al Sud quasi uno su due). Mentre il PD (e anche Liberi e Uguali) e Forza Italia sono stati votati «dalla ristretta cerchia dei salvati».

Dunque, la faglia sistema-antisistema è sociale, prima ancora che di opinione, ed è una faglia che spacca in due il centro destra. E se, dopo il voto, il PD ha spinto i 5 Stelle tra le braccia della Lega, non lo ha fatto obbedendo solo al puerile, irresponsabile ricatto renziano o al retaggio del patto del Nazareno, ma rispondendo a una logica più profonda: quella del blocco sociale che condivide con Forza Italia. Per rompere questa cristallizzazione, il PD dovrebbe ritrovare la forza di rappresentare i ceti più deboli: non si tratta di de-renzizzarsi (è solo una misura di necessaria igiene), ma di invertire la rotta rispetto a un tradimento delle ragioni elementari della sinistra iniziato negli anni Novanta, con la genuflessione alla “modernizzazione” di Tony Blair, e dunque al primato del mercato, che fu indifferentemente compiuta da un Veltroni e un D’Alema. Ma nulla lascia pensare che questo scenario sia realistico: il Partito Democratico appare lontanissimo da una simile consapevolezza, e buona parte della dirigenza di Liberi e Uguali conta di confluire nel Partito Democratico. Non è dunque in Parlamento, né in generale nel ceto politico professionistico, che si possa intravedere una qualunque speranza di rifondazione di una sinistra. E il generoso, ma esausto, esiguo e invecchiato, popolo degli attivisti della sinistra che c’è non sembra avere la forza per alimentare qualcosa il cui consenso superi il proprio stesso numero.

Eppure, da quasi dieci anni la sinistra ha capito cosa ha fatto: il pensiero critico ha capito quale terribile errore la sinistra “di governo” ha commesso imparando quella lezione che il piccolo Andrea Ranieri si era rifiutato di accettare: mettendosi cioè dalla parte “della ragione”, e dei vincenti. Il meglio dell’intelligenza della sinistra occidentale è tornata a dire già da anni che «guasto è il mondo, preda/ di mali che si susseguono, dove la ricchezza si accumula/ e gli uomini vanno in rovina» (Oliver Goldsmith, The Deserted Village). Questi versi del 1770 sono stati scelti da Tony Judt, uno degli intellettuali di sinistra più importanti del nostro tempo, come epigrafe e ispirazione per il suo ultimo libro (Guasto è il mondo, 2010). Sarebbe potuto, e potrebbe ancora, essere uno dei libri fondativi per una sinistra del XXI secolo: perché alimenta e fa crescere il presupposto essenziale su cui essa deve fondarsi, uno sguardo radicalmente critico sull’esistente:

C’è qualcosa di profondamente sbagliato nel nostro modo di vivere, oggi. Per trent’anni abbiamo trasformato in virtù il perseguimento dell’interesse materiale personale: anzi, ormai questo è l’unico scopo collettivo che ancora ci rimane. Sappiamo quanto costano le cose, ma non quanto valgono. Non ci chiediamo più, di una sentenza di tribunale o di una legge, se sia buona, se sia equa, se sia corretta, se contribuirà a rendere migliore la società, o il mondo. Erano queste un tempo le domande politiche per eccellenza, anche se non era facile dare una risposta: dobbiamo reimparare a porci queste domande. Dobbiamo sottoporre a critica radicale l’ammirazione per mercati liberi da lacci e laccioli, il disprezzo per il settore pubblico, l’illusione di una crescita senza fine. Non possiamo continuare a vivere così.

Judt ha ben chiaro, e noi con lui, che questa critica radicale non può che partire dalla struttura economica esistente. Lo cito ancora:

Oggi nel campo della politica economica i cittadini delle democrazie hanno appreso la modestia. Ci hanno detto che queste sono faccende da lasciare agli esperti, che l’economia e le sue implicazioni politiche sono troppo complicate per essere capite da un uomo della strada: una visione corroborata dal linguaggio sempre più arcano e matematico della economia. È difficile trovare gente della strada disposta, su questi argomenti, a sfidare le affermazioni del ministro del Tesoro e dei suoi consulenti. Ma dobbiamo reimparare a farlo. Dobbiamo re imparare a criticare chi ci governa. Ma per farlo in modo credibile dobbiamo liberarci dal cerchio di conformismo in cui, noi come loro, siamo intrappolati. Non possiamo sperare di ricostruire il nostro disastrato dibattito pubblico fino a quando non saremo arrabbiati a sufficienza per la condizione in cui ci troviamo.

Ecco: nel 2018 gli italiani hanno trovato la forza di dire: «Non possiamo continuare a vivere così». Ma non c’era una sinistra ad ascoltare quel grido.

E allora, da dove ripartire? Jorge Mario Bergoglio ha scritto: «Non serve un progetto di pochi per pochi». È vero anche per la sinistra in Italia: serve un progetto di tanti per tanti. Un progetto capace di ricostruire un popolo: un soggetto politico consapevole, l’unico attore possibile di un vero, radicale cambiamento di sistema.

E al centro di questo progetto può esserci una sola cosa: il lavoro. Cioè il tema a cui Andrea Ranieri ha dedicato tutta la sua vita di studio e di militanza.

La via maestra per ricostruire una sinistra è quella di realizzare un fronte largo che affermi il principio rivoluzionario per cui il lavoro, e il lavoratore, non è una merce.

Uno dei massimi studiosi del precariato, l’inglese Guy Standing, ha notato che «stiamo già assistendo alla diffusione di forme complementari di battaglie associative nuove. Il modello ideale non esiste ancora. Si evolverà. Al momento non possiamo prevederne la natura e gli esiti. Ma il precariato deve necessariamente forgiare una nuova forza politica. E lo farà». Ebbene, io credo che la vera scommessa sia costruire un fronte unico del lavoro, capace di tenere dentro tutti i lavoratori: anche i più atipici e più precari, anche i volontari travestiti. Anche gli schiavi senza nome e senza dignità per cui lottava Soumaila Sacko, il sindacalista nero ucciso in Calabria il giorno della Festa della Repubblica e della Costituzione, il 2 giugno 2018.

Tutti. E a riuscire in questa decisiva impresa non può che essere un sindacato diverso da quelli di oggi. Un sindacato dei diritti: quello che immaginava Bruno Trentin, come Ranieri ci ha ricordato. Un sindacato della persona che lavora: e anche di quella che non riesce a farlo.

Personalmente credo, e l’ho detto più volte pubblicamente, che un’eventuale elezione di Maurizio Landini alla guida della CGIL potrebbe essere il miglior viatico per questa svolta. Nel progetto della Coalizione Sociale, che proprio Landini insieme a Stefano Rodotà aveva animato, era già matura questa consapevolezza: ma, lasciando da parte i nomi e le biografie, è bene oggi chiarire con forza che non si tratterebbe di “sostituire” i partiti o addirittura la politica, ma anzi di “fare sindacato” in modo così innovativo e radicale da costruire (in un tempo necessariamente non breve) un popolo dei diritti e della Costituzione che possa dar vita a una nuova sinistra.

Nel nesso cruciale lavoro-diritti ha un posto centrale il reddito di dignità: che lungi dall’essere opposto al lavoro, va invece inteso come uno strumento fondamentale per costruire un lavoro libero dal ricatto dello sfruttamento, e dunque per allargare e consolidare una platea di cittadini liberi e davvero sovrani, cioè un popolo.

Forme assai diverse di reddito di cittadinanza stavano sia nel programma elettorale del PD, sia in quello dei 5 Stelle: ma non c’è stato nessuno che, guardando da sinistra, ne abbia spiegato non solo le differenze, ma soprattutto le reticenze e le insufficienze. Nessuno ha preso con forza la parola per dire che quello proposto dal PD è una presa in giro che scatenerebbe una guerra tra poveri, e che quello proposto dal Movimento ha tratti polizieschi che rischierebbero di portare a un aumento dello schiavismo di fatto. Ebbene, bisogna che qualcuno abbia l’intelligenza di dirlo e la forza per farsi ascoltare, spiegando e argomentando. Non è difficile farlo, perché c’è un’intera letteratura su questo (rintracciabile, ad esempio, nel sito del Basic Income Network Italia). Ci sono think tank e movimenti. E c’è una proposta forte, in campo: quella avanzata dalla Rete dei Numeri Pari di Libera. Una proposta di sinistra. Dell’unica sinistra oggi viva in Italia: quella sociale, non quella politica.

È da un tema come questo, da un mondo come questo che bisogna ricominciare. Con calma, e con pazienza. Con storie, volti e parole nuovi. Fino a che non riusciremo ad essere abbastanza forti, credibili e carichi di futuro da saper costruire e trasmettere speranza.

È un passaggio cruciale: sociale, e contemporaneamente culturale. Il rischio concreto di povertà (che oggi in Italia riguarda 18 milioni di persone, quasi un cittadino su tre) impedisce ogni formazione culturale, e dunque ogni partecipazione alla vita politica, cioè alla costruzione della polis. A uscirne profondamente menomata, anzi moribonda, è la stessa democrazia italiana: che si avvia a diventare oligarchica non solo per la degenerazione dell’élite economica e politica, ma anche per il drastico restringimento della cittadinanza di fatto. Il motivo per cui i costituenti inserirono tra i principi fondamentali su cui poggia la Repubblica lo «sviluppo della cultura» era la convinzione che senza una «leva dell’intelligenza» sarebbe stata a rischio la tenuta democratica del Paese. Quella che ho appena citato è un’espressione usata da Concetto Marchesi nella relazione con cui presentò all’Assemblea Costituente il primo embrione di ciò che diventerà poi l’articolo 9: «E in verità non occorre chiamarsi socialisti o comunisti per riconoscere che i tre quarti della popolazione sono sottratti alla prova dell’attività intellettuale. La leva in massa degli eserciti è stata fatta da secoli, la leva dell’intelligenza mai. E importa all’Italia che questi milioni d’italiani entrino nel circolo della vita nazionale» (1947). Dopo settant’anni abbiamo conquistato – forse – solo un altro quarto del Paese a un’istruzione e a una vita culturale che permettano l’esercizio di quel minimo senso critico individuale che consente l’effettivo esercizio della sovranità popolare solennemente affermata dall’articolo 1. Il reddito minimo non è dunque solo uno «strumento contro diseguaglianze, mafie e povertà» (come giustamente ripete Libera), ma è anche, direttamente, uno strumento per la costruzione di democrazia attraverso lo «sviluppo della cultura». Non puoi essere un cittadino critico e sovrano se lotti per la sopravvivenza, ostaggio di un mercato selvaggio che, attraverso il ricatto della precarietà, t’impone il silenzio. Pensiamolo come una specie di grande riscatto collettivo: potremmo riscattare dalla schiavitù economica, culturale, civile milioni di italiani. Riscattare dei sudditi, trasformandoli in sovrani. È tempo di comprendere che la democrazia si sostiene e si garantisce solo includendovi milioni d’italiani che, ad oggi, non hanno davvero alcun motivo per amarla e difenderla.

È da un nuovo fronte del lavoro che poggi sui due pilastri di un sindacato dei diritti e di un reddito di dignità che può nascere la sinistra che ancora non c’è. E della quale il Paese ha terribilmente bisogno.

«Non serve un progetto di pochi per pochi. Di una minoranza illuminata o rappresentativa che si appropria di un significato collettivo»: dopo le elezioni del 4 marzo 2018 queste parole scritte tanti anni fa dall’allora primate d’Argentina e attuale Papa Francesco suonano come l’ammonimento più urgente per chiunque voglia anche solo pensare a ricostruire una sinistra in Italia.

Perché è drammaticamente evidente che non si tratta di rimettere in piedi una classe dirigente, per quanto rinnovata e consapevole essa riesca ad essere, né è questione di immaginarsi una nuova struttura, o una più efficiente organizzazione (di partito, o di movimento). Di fronte alla desolazione di queste macerie appare invece chiaro che si tratta di ricostruire un popolo: di ricostruirlo socialmente e culturalmente, ancor prima che politicamente.

Ed è qua che i pensieri e le parole di Andrea Ranieri possono giocare un ruolo importante.

Nelle pagine programmatiche che restano l’eredità più limpida del Brancaccio – insieme allo spirito nuovo che soffiava in quella sala il 18 giugno 2017 e che poi ho sentito in tante assemblee in tutta Italia – proprio Ranieri ha scritto che «la buona scuola reale è quella che interroga il mondo per cambiarlo, non quella che insegna ad adattarsi al mondo com’è». È un’idea cruciale, detta in modo perfetto: e vale anche per la sinistra.

Una sinistra che interroga il mondo è una sinistra che vuole innanzitutto studiare, sapere, vedere dentro le cose. Una sinistra che vuole capire. Quando, nel 1945, Piero Calamandrei ricordò l’inizio dell’impegno antifascista di Carlo e Nello Rosselli negli anni Venti, egli ne descrisse il movente profondo in questi termini: «Perché accadeva questo generale sfaldamento di tutta una struttura nazionale? Perché questo crollo? Perché questa indifferenza? Prima di agire bisognava poter rispondere a queste domande tormentose: bisognava capire».

Capire, dunque, e capendo costruire i presupposti per un’azione rinnovata e incisiva. In modi diversi da tutti quelli che abbiamo conosciuto: senza forzature, senza scadenze elettorali, senza nulla di strumentale. In modi nuovi: certo più simili al mutualismo profondamente politico praticato da tante nuove realtà che costellano l’Italia, che non a quello dei partiti in cui si è consumato l’ultimo e definitivo tradimento della sinistra italiana. Scegliendoci i «compagni» scrive Ranieri «tra quelli che quotidianamente si occupano della loro salute e del loro cibo, del loro vivere e del loro abitare, che mettono in piedi mense popolari e occupano case, che insegnano le parole per esprimersi ai migranti e agli zingari, che cercano di costruire organizzazione fra i precari del lavoro cognitivo e fra i disperati della logistica». Non un progetto a nome dei poveri, o con la delega dei poveri: ma – è ancora Ranieri – «i poveri, che provano tutti insieme a difendere e a rendere migliore la propria vita, sono gli unici che possono salvare il mondo dallo sfacelo. Dallo sfacelo provocato dai consumi e dalla cultura dei ricchi».

Nell’angoscia che Ranieri dice di aver provato ogni volta che si è allontanato dai poveri per governare “per i poveri” leggo un’idea di sinistra che nella tradizione italiana non ha molti padri. Uno è certo Emilio Lussu, che nel 1957 spiegava così cosa voleva (e vuol dire) “essere a sinistra”:

Per uno di sinistra, il potere è solo un posto di responsabilità e di lotta, psicologicamente identico al posto che differenti momenti politici impongono si occupi in carcere, al confino, in esilio o fra i partigiani. Politicamente, per un socialista, essere a sinistra è un’altra questione, per quanto non necessariamente legata alla prima. «La sinistra» tu mi dici nella tua lettera «deve consistere nel creare un governo amico dei lavoratori, capace, onesto, coraggiosamente riformatore». No, mio caro: questo è essere a destra. Essere a sinistra consiste nel basare la lotta politica e ogni conquista della classe operaia e dei lavoratori nella lotta autonoma, sindacale, sociale e politica; essere sempre presenti nella lotta delle masse; realizzare la democrazia verso il socialismo con continue conquiste e difenderle, con la lotta. Se ciò non avviene, la democrazia non la si conquista e non la si difende: né con la Costituzione, né col presidente della Repubblica, né col Parlamento, né col governo, né con l’esercito, per sé soli. La stessa Costituzione democratica non ci viene da un areopago di «amici dei lavoratori, capaci, onesti, coraggiosamente riformatori», ma dall’Assemblea di un popolo, i cui delegati, usciti dalla Resistenza e dalla Liberazione, rappresentavano le istanze sociali e politiche più avanzate della rivoluzione antifascista e antinazista. Erano i rappresentanti usciti dal popolo: erano il popolo di quel saliente periodo storico. Voglio dire che la libertà e lo stato democratico non ci sono caduti dall’alto illuminato, ma ci sono venuti dal basso, dall’impeto della lotta popolare e nazionale. I Consigli di gestione sono caduti perché non li abbiamo saputi inserire nella realtà dell’azienda, né abbiamo voluto difendere i primi esperimenti e volevamo codificarli prima ancora che fossero conquistati in una maturata esperienza di capacità e di lotta, e attendevamo dal governo, dove pure erano i rappresentanti operai, quanto dipendeva solo da noi. Ma le Commissioni interne, con cui gli operai erano subito penetrati nella vita interna della fabbrica, hanno resistito, nonostante la spietata repressione padronale sostenuta dal potere politico. Essere a sinistra significa vedere questi errori, ed essere a destra significa dare scarsa importanza a tutto ciò. C’è, insomma, più democrazia costituzionale nella lotta d’una lega di contadini giustamente impostata che non nell’insegnamento pubblico delle norme della Costituzione. La Costituzione è cosa morta, se non è animata dalla lotta. E anche quando siamo stanchi e vicini alla sfiducia, non c’è altro su cui fare affidamento. Rimettersi all’alto è capitolazione sempre.

Conoscere la memoria e praticare la speranza significa pensare che solo così – dal basso, e da una lotta quotidiana che sia innanzitutto una lotta di idee – possiamo trovare il coraggio per uscire dalle macerie: innanzitutto concependo la politica come una maieutica di se stessi, capace di far venire fuori, e non già di sopprimere, quel soffocato nucleo di umanità che sta in ognuno di noi.

E bisognerà trovarlo questo coraggio: perché dal capolinea si può e si deve ripartire.

© 2018 Lit Edizioni Srl.

(*) Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo la postfazione di Tomaso Montanari al libro “La memoria e la speranza. Oltre le macerie della sinistra” di Andrea Ranieri, in libreria per Castelvecchi.

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