Epidemia di tifo

02 Giu 2018

Lo spettacolo disgustoso offerto dalla politica italiana negli ultimi giorni non manca di aggiornarsi di minuto in minuto di un capitolo, carpito e dato in pasto da media vecchi e nuovi a noi abulici consumatori. Tutto (anche quando è il nulla) è documentato e commentato; ai margini della Grande Narrazione sulla formazione del governo restano solo gli aneddoti e gli autoesclusi.

In primis, il Pd naturalmente. Ecco allora che l’inanità imposta da Renzi al voto dei suoi fans qualche effetto (secondario, sia chiaro) lo sortisce: informati di aver ingenuamente eletto l’opposizione, i più “social” tra loro sfogano il soffocamento forzato del proprio voto sguinzagliando le dita sulle tastiere. Obiettivo: trovare e colpire i colpevoli del disastro. Si comprenderà meglio la frustrazione ricordando il (loro) concetto di opposizione: una minoranza impotente e sbraitante tesa ad aspettare al varco quelli che ce l’hanno fatta, casomai inciampassero nel disbrigo delle ratifiche governative.

La legge elettorale di Rosato “la sera delle elezioni” naturalmente ha solo certificato un tracollo di consenso senza precedenti, ma in proposito le categorie mentali del renziano (in folta compagnia) sono piuttosto rigide: “si vince” o “si perde”, fino al prossimo giro. Che “perdere” sia una gran brutta cosa ne consegue inesorabilmente. La rigidità mentale si accompagna, coerentemente, alla totale assenza di autocritica: anche senza analizzare le politiche ma limitandosi alla gestione della posizione di potere, il suicidio perfetto di Renzi deve far spazio a uno “storytelling” diverso, se non altro per consentire lo sfogo da tastiera (unico possibile) di cui abbiamo detto. È così che svariati temerari in spasmodica ricerca di un colpevole, evitando bene di alzare lo sguardo al leader, hanno pensato bene di abbassarlo alle proprie scarpe, dove da un anno e mezzo alberga il sassolino del referendum contro la riforma costituzionale. E sui social network, con sprezzo del ridicolo, hanno sputato la propria amarezza contro gli intellettuali (i “gufi”, ricordate?) di Libertà e Giustizia e del Coordinamento Democrazia Costituzionale.

Tweet di Gianni Riotta (28 maggio): “Spiace che studiosi valenti come Onida o Zagrebelsky che si sono sgolati per anni a difendere la Costituzione non si espongano adesso per difenderla, con il presidente Mattarella, da attacchi di bassa lega”.

Non pare vero avere una buona scusa per dare forma al sogno proibito: dimostrare la connivenza profonda dei “gufi” coi “populisti”. L’aggancio è la mancata tempestiva telecronaca e commento della (avvilente) attualità politica; la spia dell’astio è quello sprezzante “sgolati”.

Riotta arriva buon ultimo, perché da giorni su twitter e facebook si avvicendano espressioni dello stesso concetto da “leoni da tastiera” più reattivi: dalle più rozze (“Amici dei fascisti” twittato a Libertà e Giustizia, per esempio, e inaccettabili insulti personali ai membri più rappresentativi dell’associazione) a più pacate ironie del tipo “signori costituzionalisti, nulla da dire?” (seguito da faccetta dormiente). “Nessuno degli eroi che hanno difeso la costituzione più bella del mondo è reperibile!”, “Far fuori Renzi era l’obiettivo di ‘sta gente. Si godano i porcari” e “Questi hanno boicottato l’unico argine al populismo per anni” sono esempi di commenti dedicati a LeG arrivati direttamente da amici sulla mia pagina facebook.

Chi si esprime così decide deliberatamente di ignorare (oltre alla realtà) sia la natura delle associazioni di cultura politica (che oltretutto legittimamente vivono un ricco dibattito tra voci in dissenso al suo interno), sia la qualità del contributo che gli intellettuali chiamati in causa possono (se e come lo ritengono!) individualmente apportare al dibattito pubblico. Guardare a chi impegna le proprie competenze (gratuitamente e volontariamente) nella costruzione di un’opinione pubblica informata, critica ed educata al civismo come ad un avversario impegnato nello schizofrenico ping-pong della reazione immediata alla cronaca politica (il professor Zagrebelsky una volta usò l’efficace immagine delle rane di Galvani) non consente neppure di capire, figuriamoci di apprezzare o criticare, il suo contributo.

C’è la tensione perenne al semplicistico, certo; l’abbassamento del livello del dibattito accompagnatosi alla “democratizzazione” permessa dai social network; lo sdoganamento della liceità dell’attacco scorretto (ad esempio travisando o decontestualizzando serenamente una frase o un fatto); ma l’unica logica di fondo che mi pare permetta questo atteggiamento, altrimenti incomprensibile, è quella del tifo.

Tutti conoscono lo stato d’animo pervasivo e accecante del tifoso: smani per uno o per l’altro contendente di una competizione (in genere si parla di sport) sulla quale non hai nessuna possibilità di incidere. Ti dà l’illusione di partecipare all’impresa dell’atleta, della squadra, del travagliato eroe di un film o un libro e il diritto di godere dei suoi successi. Per la Treccani l’etimologia è greca da “τῦϕος”, che significa “fumo, vapore, fantasia” e che in latino ha dato “typhus” (“superbia”). Non interessa che la partita sia bella, che i giocatori siano o meno mercenari, corrotti, dopati… l’importante è sentirsi parte di un gruppo (in contrapposizione agli altri) e, naturalmente, vincere. L’eventuale sconfitta ti rovina la giornata e questo solo nel migliore dei casi.

Provando a pensarlo in politica: già Ilvo Diamanti alla “Repubblica delle Idee” dell’anno scorso ci ha spiegato che dal dopoguerra al 2008 (mutatis mutandis) tutti hanno sempre votato “allo stesso modo”: il voto era “un segno, un marchio, un’appartenenza”. Poi però, e precisamente dal 2008, “è cambiato tutto”. Sono venute meno le appartenenze, seguendo di diversi anni le grandi ideologie. Ebbene, può sembrare paradossale, ma mi pare che duro a morire resti comunque il tifo. La differenza rispetto alla fase pre-2008 evidentemente è la “fedeltà alla squadra”; per il resto permangono e forse aumentano l’acriticità (equivarrebbe a disfattismo), un lessico zeppo di “attacchi” “manovre” “alleanze” “mosse” “vittorie” “conquiste” ecc., la cecità di fronte alle incongruenze anche macroscopiche dei propri leader (tra il dire e il fare, ma anche tra il dire e il dire…), la giustificazione di qualunque piccola o grande scorrettezza in nome del “risultato” (sui cui effetti non ci si interroga neanche più, se è vero, ad esempio, che milioni di poveri o quasi-poveri sarebbero pronti ad abbracciare la flat-tax della Lega). La stessa maggiore disinvoltura nel cambio di squadra (dal 2008 in poi, abbiamo detto) non si giustifica mai con una (eventualmente legittima) evoluzione di opinione, ignominiosa per il vero tifoso che deve sempre apparire coerente con se stesso: semmai è lo schieramento votato fino a ieri che ha “tradito”, si è snaturato o (perfino) non costituisce più un’opzione di voto “utile” (vedere il travaso di voti atteso da Forza Italia a Lega).

Se questa è la situazione, forse è anche perché è venuta meno (insieme con le ideologie) la capacità dei partiti di formare consapevoli sostenitori, efficaci narratori e adeguati interpreti della vita politica del nostro Paese. Più necessaria che mai appare allora l’opera di un’associazione culturale come Libertà e Giustizia nel nostro tempo tragico e rumoroso.

(*) L’autore fa parte del Consiglio di Direzione di LeG e coordina il Circolo di Ginevra

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