Codice Minniti/ Ong, la mescolanza del bene con il male

07 Ago 2017

Roberta De Monticelli Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Il vero male non è il male, ma la mescolanza del bene e del male. Quasi ogni grande dibattito pubblico dà l’ occasione di verificare per l’ ennesima volta l’ esattezza di questa tesi di Simone Weil. Quello che si è aperto sul Codice Minniti mostra che una delle ragioni per cui il vero male è questa mescolanza, è che essa rende quasi impossibile impostare razionalmente una discussione. Tutti infatti tengono alla parte di bene, ma più questa è intrecciata con quella di male, e più arbitraria diventa la risposta alla questione se la parte di male prevalga o no su quella di bene.
Ma che tipo di documento giuridico è questo Codice e come nasce?
Come si evince dal colloquio con il ministro Minniti pubblicato ieri dal Fatto, nasce da un’iniziativa parlamentare approvata da tutte le forze politiche, e ottiene in seguito l’ approvazione anche della Commissione europea. Si chiama “Codice di condotta per le Ong implicate nelle operazioni di salvataggio dei migranti in mare”, ed è giuridicamente un codice di autodisciplina, che ha natura contrattuale: vincola cioè chi lo accetta, ma almeno ufficialmente non prevede sanzioni per chi non lo accetta. Altra questione è se si possa collaborare in un’ impresa così cooperativa e difficile con le autorità portuali italiane senza dotarsi di regole comuni.
Ma torniamo alla mescolanza del bene e del male. Il primo capoverso del codice mostra già quanto lo sciagurato intreccio stia nelle cose: “La pressione migratoria sull’ Italia non sembra diminuire, e anzi è perfino più impressionante che nell’ anno passato, come è riconosciuto falle istituzioni dell’ UE e dagli Stati membri”.
Il bene: che molti migranti vengano salvati. Il male: che sempre di più ne muoiano. Milena Gabanelli ha ripetuto questo concetto in un’ intervista al Fatto del 2 luglio. Il dato certo, sostiene, “è che non ci sono mai state tante navi che si adoperano per il salvataggio”. E quantifica: “Mentre nel 2015 i morti in mare sono stati 2800, nel 2016 siamo arrivati a 4300”. Certo la conclusione è dolorosa: “Più metti in opera possibilità di salvataggio e più i trafficanti portano in mare i migranti”. Ma questa è esattamente la formula dell’ intreccio di bene e male nel caso specifico. E l’ intreccio riproduce se stesso perversamente. Se è vero che idealmente ogni essere umano avrebbe il sacrosanto diritto di sfuggire a condizioni di vita “economicamente” disperate, anche se non sia diretta vittima di conflitti, è anche vero, come chiarisce Minniti al Fatto, “il traffico è una delle poche imprese che in Libia funzionano”. E vogliamo incentivarlo, o vogliamo cercare alternative per sconfiggerlo che non siano semplicemente chiudere le porte d’ Europa?
Cosa si può fare per sciogliere l’intreccio? Molti hanno aspramente criticato il Codice, soprattutto nei due punti in vista dei quali alcune Ong hanno rifiutato di adottarlo: il divieto di trasbordo (che però vale a eccezione delle situazioni di emergenza, cioè appunto di quelle in cui il trasbordo è necessario: dunque non “intende” impedire i salvataggi ma solo quei trasbordi che permettono agli scafisti di incassare i soldi, conservare i mezzi e dileguarsi affidando i carichi umani ad altri) e l’ accesso alle navi di rappresentanti della polizia giudiziaria (ma nel contesto di indagini sul traffico di esseri umani). I particolari che emergono, sempre più sconcertanti, sulla Ong tedesca Jugend Rettet, oggetto di indagine giudiziaria per aver fatto esattamente quello che il Codice ora proibirebbe, e addirittura a poche miglia dalla costa libica e in collaborazione con gli scafisti, fanno pensare che quel codice tanto immotivato non sia, come con la consueta chiarezza ha sostenuto Marco Travaglio. 
È vero, critiche competenti sulla forma e il contenuto del Codice sono venuta dalla Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione. Però questo, da un lato, sarebbe un codice di autodisciplina, vincolante semplicemente in quanto assunto dalle organizzazioni che partecipano al salvataggio dei migranti. E infatti tutte le organizzazioni hanno partecipato alla discussione col governo, per definirlo. Ma dall’altro lato fa parte di un’iniziativa europea – dunque anche nostra – “per sostenere l’Italia, ridurre la pressione lungo la rotta centrale del Mediterraneo, e accrescere la solidarietà”. Accrescere la solidarietà europea – non solo fra Stati ma anche verso i migranti, secondo la Carta dei Diritti Fondamentali dell’ Ue – significherebbe rivedere l’ iniquo trattato di Dublino, che costringe il Paese di prima accoglienza a farsi carico in modo definitivo dei migranti, invece di distribuire responsabilità e doveri d’ accoglienza.
La questione di fondo è che l’Italia non solo subisce lo scaricabarile degli altri Stati europei, ma anche gli effetti del caos nelle attività di Ricerca e Salvataggio, in cui un codice come quello Minniti tenta di mettere ordine.
Nella speranza, forse, che così ci si metta in marcia verso una condivisa revisione di Dublino.
Proviamo a formularla in termini più generali, questa questione di fondo.
O crediamo che l’Italia sia dopo tutto uno Stato di diritto, oppure no. Ma se ci crediamo, allora perché guardare con orrore – scelgo questa clausola perché è la più simbolica – alla prescritta accoglienza della polizia giudiziaria sulle navi Ong? A proposito di mescolanza del bene e del male: rinunciare a far giustizia da sé e conferire questa funzione a un potere pubblico (la polizia giudiziaria dipende dalla magistratura) è uno dei primi passi nel difficile lavoro di dirimere il bene dal male – che è il lavoro fondamentale del darsi norma, di porre un limite alla nostra ferinità, per liberare l’ aspirazione ad aver giustizia propria della nostra umanità. Più in concreto, qui, la norma dovrebbe servire a separare i salvatori e i salvati dagli scafisti che lucrano sulla miseria. Magari questa non è una buona norma, deve essere rivista.
Ma perché, mentre la Ong francese Medici Senza Frontiere si comporta lealmente nei confronti dello Stato francese, e fin troppo, senza neppure osare l’ azione dimostrativa che la Gabanelli aveva suggerito: entrare in un porto francese – noi tendiamo a rispettare lo Stato italiano meno degli scafisti?

il Fatto Quotidiano, 6 agosto 2017

 

Nata a Pavia il 2 aprile 1952, è una filosofa italiana. Ha studiato alla Normale di Pisa, dove si è laureata nel 1976 con una tesi su Edmund Husserl.

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