E’ il conformismo che ci azzoppa

E’ il conformismo che ci azzoppa

L’articolo di Nadia Urbinati su Il presente che nutre il fascismo (la Repubblica, 12 luglio 2017) suscita – in chi scrive, almeno – ammirazione e perplessità. Ammirazione per lo sforzo di rendere razionale un pensiero dialettico, che procede per opposizioni – ma, grazie all’autrice, non per “contraddizioni”, come nell’assurdo linguaggio hegeliano praticato ancora da alcune icone, giovani o antiche, della cosiddetta sinistra italiana.

E per le molte cose che riesce a dirci, nella sua attenzione tesa a parlare del presente, tenendo insieme gli opposti di una “vittoriosa” cultura dei diritti individuali e di un’esigenza di comunità e di solidarietà, oggi non più soddisfatta da quegli organismi di partecipazione effettiva alla vita politica ed economica che sono i partiti e i sindacati.

Le risposte di un comunitarismo nazionalistico, xenofobo, populistico sono risposte sbagliate a questa cultura dei diritti individuali incapace “di attutire i colpi di un individualismo che è apprezzato solo da chi non ha soltanto le proprie braccia come mezzo di sussistenza”. E come non essere d’accordo con il richiamo ai “nostri padri fondatori più lungimiranti, i liberalsocialisti, [che] erano attenti a mai dissociare la libertà dalla giustizia sociale”.

E la perplessità? Ecco. Ma è vero che “un diritto è un abito di solitudine – definisce la relazione di libertà della persona in un rapporto di opposizione con gli altri e la società”? Per brillante che sia la definizione, io non credo che sia giusta, e molte delle ragioni che ho per non ritenerla giusta mi vengono dai libri di Nadia Urbinati e di altri esponenti dell’idea di democrazia deliberativa. Voglio prendere ad esempio i primi fra i diritti individuali, quelli per cui si combattuto fin dalla prima modernità. La libertà di parola. O più in generale di espressione, anche religiosa.

Perché la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino (1789) contiene l’osservazione che “la libera comunicazione delle idee e delle opinioni è uno dei più preziosi fra i diritti dell’uomo”? L’”età dei diritti” si confronta a più riprese con questa convinzione. Il famoso discorso di F. D. Roosvelt (1941) sulle quattro libertà la ribadisce per le prime due. E’ come se una società democratica e liberale avesse le sue radici più profonde nelle menti degli uomini liberi, o liberati dagli effetti devastanti che l’assenza di queste due libertà produce sulle persone stesse.

Definire un diritto individuale “un abito di solitudine” trascura completamente l’essenziale di questi due diritti, che è invece la libera comunicazione e conversazione e anche pubblica discussione nella quale soltanto vivono le ragioni di una democrazia – e questo proprio Nadia Urbinati ce lo ricorda in molti suoi libri. Ma oltre alle ragioni della democrazia ci sono anche quelle delle persone. La dignità di una vita personale è nella sua capacità di ricerca e confronto. Ricerca del vero, e del giusto, anche sul pane e sul vino e la casa. (Ha torto Bertolt Brecht. Non è vero che “prima la pancia e poi vien la virtù).

Che si possa incanaglire senza questa dignità, è la grande lezione del pensiero umanistico dei secoli, ma è soprattutto la concreta lezione di alcuni classici che hanno studiato questi effetti devastanti che l’assenza delle libertà espressive ha sulle persone: Czeslav Milosz, Ignazio Silone, Nicola Chiaromonte, Tzvetan Todorov, Hannah Arendt, Vassilij Grossman, Primo Levi. Per incanaglire intendo perdere la libertà morale, ossia la capacità di non cedere alla forza schiacciante della pressione sociale sulla coscienza individuale, di resistervi dove sia giusto ed esprimere ciò che è giusto.

Naturalmente questa non è solitudine, è esercizio di parola e ragione, con gli altri. Ma la lezione di quei classici va molto oltre, e ci dice che la “mente prigioniera” è anche un’anima dimidiata. Ci dice cioè che è impossibile limitare il bando della libertà alla sfera pubblica, senza atrofizzare la vita interiore delle persone. Senza una sostanziale riduzione della loro capacità di sentire valori e disvalori, e quindi della loro esperienza morale (e non solo). Un rimpicciolimento estremo di sé è l’effetto devastante della demoralizzazione, che è la perdita del coraggio morale. Categoria che mi sembra proprio oggi molto più adeguata di quella di solitudine.

Vengo all’oggi, appunto. E’ vero che in Italia la cultura dei diritti individuali ha vinto? Si può fortemente dubitarne, proprio se si parla di “cultura”. E’ proprio il potere invisibile e schiacciante della pressione collettiva sulla coscienza personale il fenomeno più diffuso cui assistiamo a tutti i livelli della società civile. Non è la solitudine, è il conformismo che ci azzoppa: e non è questa la vera continuità italiana fra fascismo e – purtroppo – democrazia? “Chi sono io per giudicare”? – la frase che prelude all’auto-destituzione del soggetto morale in se stessi – è la frase più ricorrente che incontriamo dovunque tentiamo di suscitare un po’ di stupore, almeno, per le violazioni sistematiche e abituali di tutte le norme di una società liberal: nel giornalismo asservito, nei pubblici concorsi concordati, nei pubblici appalti truccati, nei consigli di scuola o di facoltà fantozziani, nell’uso spesso criminoso delle risorse pubbliche da parte delle amministrazioni locali, negli accordi sistematici fra cittadini per frodare il fisco, nel modo in cui lo Stato salva le banche spolpate dalle consorterie di amici che le hanno dirette…

Certo, i regimi totalitari sono organizzati al fine di stroncare l’autorità morale degli individui, ma lo stesso effetto, del tutto in intenzionalmente, viene raggiunto con altri mezzi in alcune società democratiche: la nostra ad esempio, attraverso questa enorme rete di corruzione che continuiamo ad avvolgere intorno a noi stessi. E siccome sollevo problemi, non soluzioni (queste tutti dobbiamo, parlandone, cercarle): è possibile, con la fame di conoscenza tecnica, giuridica, economica, geopolitica – che oggi deve avere anche chi ha soprattutto fame e sete di giustizia – sciogliere il nodo che secondo Simone Weil, maestra di tutti i classici che ho citato, condannava anche i partiti – anche ciò che ne resta oggi – alla mediazione impossibile fra la ricerca della conoscenza che serve e la tendenza all’autoconservazione? Non sentiamo questo stridente contrasto perfino nel nostro povero, frastagliatissimo, demoralizzato campo….progressista?

Il Fatto Quotidiano, 19 Luglio 2017

1 commento

  • Grazie per questo articolo!
    Purtroppo la quotidianità, spesa su impegni pressanti e più complessi di sopravvivenza, ha impoverito le mie capacità dialettiche e talvolta anche quelle di formulare un pensiero lucido…
    Credo che l’invasione e l’imposizione tecnocratica nella vita dei singoli stia peggiorando molto la qualità della vita e sopratutto del pensiero, rubando tempo alla lentezza necessaria per driflettere bene sulle cose e sugli eventi.
    La proposta di legge sull’obbligo vaccinale della scandalosa ministro Lorenzin, che oggi verrà votata alla Camera, è un vero pugno nello stomaco.
    Ho seguito il dibattito al Senato e ne emerge una fretta squallida. Il livello scientifico e dialettico nel confronto tra le diverse posizioni era bassissimo, salvo alcuni interventi ovviamente degli oppositori. Eccellente quello del medico e senatore Maurizio Romani, che sarebbe stato sufficiente ai presenti in grado di intendere e volere per dirsi “la seduta è tolta, andiamo in pace e torniamo a fare le persone serie”…Invece no in 171 hanno votato a favore e il decreto è passato alla Camera.
    L’imposizione non ha nessuna ragione di esistere. E non è il mezzo di un nobile fine.
    Non è necessario essere scientificamente competenti per capire che se ci fosse un epidemia di morbillo, il ministro della Salute (!) dovrebbe proporre la diffusione di vaccini monovalenti contro il morbillo (sebbene sia assodato che i vaccinati non siano immunizzati a vita e rischiano appunto di ammalarsi di morbillo in età più rischiosa).
    E ai senatori che hanno rimarcato questo punto, il ministro ha risposto esclamando “ma le case farmaceutiche non hanno interesse a produrre i monovalenti!”. Anche questo passaggio sarebbe stato sufficiente non solo per un moto di indignazione, ma per spodestare la stessa dal trono su cui siede indegnamente.
    In effetti il rischio più grande che corrono le creature sottoposte all’obbligo vaccinale, rivisto e corretto da questo esempio di sapienza, è il vaccino esavalente (difterite, tetano,pertosse, polio, Hib, EpatiteB). In cui uno dei componenti, l’anti-EpatiteB è coperto da brevetto della Glaxo Smith Kline in tutte le sue formulazioni e combinazioni con altri vaccini. di questo si è appunto vantato Jean Stèphane, annoverando le prodezze finanziarie della azienda in una intervista.
    Sui mezzi di comunicazione il dibattito etico o scientifico non ha spazio, sia perché non si creano mai le condizioni di pacatezza necessarie per un confronto in cui si desideri approdare a una maggiore comprensione, sia e soprattutto perché le posizioni – volenti o nolenti – sono già state prese dall’alto. Ad esempio, il marito di Beatrice Lorenzin, tale Alberto Picardi, è dirigente RAI responsabile delle comunicazioni istituzionali. Inutile menzionare la posizione di tutto l’indotto berlusconiano.
    Centinaia di migliaia di Italiani stanno manifestando e non fanno notizia, se non per essere ridicolizzati.

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