E’ il conformismo che ci azzoppa

23 Lug 2017

Roberta De Monticelli Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

L’articolo di Nadia Urbinati su Il presente che nutre il fascismo (la Repubblica, 12 luglio 2017) suscita – in chi scrive, almeno – ammirazione e perplessità. Ammirazione per lo sforzo di rendere razionale un pensiero dialettico, che procede per opposizioni – ma, grazie all’autrice, non per “contraddizioni”, come nell’assurdo linguaggio hegeliano praticato ancora da alcune icone, giovani o antiche, della cosiddetta sinistra italiana.

E per le molte cose che riesce a dirci, nella sua attenzione tesa a parlare del presente, tenendo insieme gli opposti di una “vittoriosa” cultura dei diritti individuali e di un’esigenza di comunità e di solidarietà, oggi non più soddisfatta da quegli organismi di partecipazione effettiva alla vita politica ed economica che sono i partiti e i sindacati.

Le risposte di un comunitarismo nazionalistico, xenofobo, populistico sono risposte sbagliate a questa cultura dei diritti individuali incapace “di attutire i colpi di un individualismo che è apprezzato solo da chi non ha soltanto le proprie braccia come mezzo di sussistenza”. E come non essere d’accordo con il richiamo ai “nostri padri fondatori più lungimiranti, i liberalsocialisti, [che] erano attenti a mai dissociare la libertà dalla giustizia sociale”.

E la perplessità? Ecco. Ma è vero che “un diritto è un abito di solitudine – definisce la relazione di libertà della persona in un rapporto di opposizione con gli altri e la società”? Per brillante che sia la definizione, io non credo che sia giusta, e molte delle ragioni che ho per non ritenerla giusta mi vengono dai libri di Nadia Urbinati e di altri esponenti dell’idea di democrazia deliberativa. Voglio prendere ad esempio i primi fra i diritti individuali, quelli per cui si combattuto fin dalla prima modernità. La libertà di parola. O più in generale di espressione, anche religiosa.

Perché la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino (1789) contiene l’osservazione che “la libera comunicazione delle idee e delle opinioni è uno dei più preziosi fra i diritti dell’uomo”? L’”età dei diritti” si confronta a più riprese con questa convinzione. Il famoso discorso di F. D. Roosvelt (1941) sulle quattro libertà la ribadisce per le prime due. E’ come se una società democratica e liberale avesse le sue radici più profonde nelle menti degli uomini liberi, o liberati dagli effetti devastanti che l’assenza di queste due libertà produce sulle persone stesse.

Definire un diritto individuale “un abito di solitudine” trascura completamente l’essenziale di questi due diritti, che è invece la libera comunicazione e conversazione e anche pubblica discussione nella quale soltanto vivono le ragioni di una democrazia – e questo proprio Nadia Urbinati ce lo ricorda in molti suoi libri. Ma oltre alle ragioni della democrazia ci sono anche quelle delle persone. La dignità di una vita personale è nella sua capacità di ricerca e confronto. Ricerca del vero, e del giusto, anche sul pane e sul vino e la casa. (Ha torto Bertolt Brecht. Non è vero che “prima la pancia e poi vien la virtù).

Che si possa incanaglire senza questa dignità, è la grande lezione del pensiero umanistico dei secoli, ma è soprattutto la concreta lezione di alcuni classici che hanno studiato questi effetti devastanti che l’assenza delle libertà espressive ha sulle persone: Czeslav Milosz, Ignazio Silone, Nicola Chiaromonte, Tzvetan Todorov, Hannah Arendt, Vassilij Grossman, Primo Levi. Per incanaglire intendo perdere la libertà morale, ossia la capacità di non cedere alla forza schiacciante della pressione sociale sulla coscienza individuale, di resistervi dove sia giusto ed esprimere ciò che è giusto.

Naturalmente questa non è solitudine, è esercizio di parola e ragione, con gli altri. Ma la lezione di quei classici va molto oltre, e ci dice che la “mente prigioniera” è anche un’anima dimidiata. Ci dice cioè che è impossibile limitare il bando della libertà alla sfera pubblica, senza atrofizzare la vita interiore delle persone. Senza una sostanziale riduzione della loro capacità di sentire valori e disvalori, e quindi della loro esperienza morale (e non solo). Un rimpicciolimento estremo di sé è l’effetto devastante della demoralizzazione, che è la perdita del coraggio morale. Categoria che mi sembra proprio oggi molto più adeguata di quella di solitudine.

Vengo all’oggi, appunto. E’ vero che in Italia la cultura dei diritti individuali ha vinto? Si può fortemente dubitarne, proprio se si parla di “cultura”. E’ proprio il potere invisibile e schiacciante della pressione collettiva sulla coscienza personale il fenomeno più diffuso cui assistiamo a tutti i livelli della società civile. Non è la solitudine, è il conformismo che ci azzoppa: e non è questa la vera continuità italiana fra fascismo e – purtroppo – democrazia? “Chi sono io per giudicare”? – la frase che prelude all’auto-destituzione del soggetto morale in se stessi – è la frase più ricorrente che incontriamo dovunque tentiamo di suscitare un po’ di stupore, almeno, per le violazioni sistematiche e abituali di tutte le norme di una società liberal: nel giornalismo asservito, nei pubblici concorsi concordati, nei pubblici appalti truccati, nei consigli di scuola o di facoltà fantozziani, nell’uso spesso criminoso delle risorse pubbliche da parte delle amministrazioni locali, negli accordi sistematici fra cittadini per frodare il fisco, nel modo in cui lo Stato salva le banche spolpate dalle consorterie di amici che le hanno dirette…

Certo, i regimi totalitari sono organizzati al fine di stroncare l’autorità morale degli individui, ma lo stesso effetto, del tutto in intenzionalmente, viene raggiunto con altri mezzi in alcune società democratiche: la nostra ad esempio, attraverso questa enorme rete di corruzione che continuiamo ad avvolgere intorno a noi stessi. E siccome sollevo problemi, non soluzioni (queste tutti dobbiamo, parlandone, cercarle): è possibile, con la fame di conoscenza tecnica, giuridica, economica, geopolitica – che oggi deve avere anche chi ha soprattutto fame e sete di giustizia – sciogliere il nodo che secondo Simone Weil, maestra di tutti i classici che ho citato, condannava anche i partiti – anche ciò che ne resta oggi – alla mediazione impossibile fra la ricerca della conoscenza che serve e la tendenza all’autoconservazione? Non sentiamo questo stridente contrasto perfino nel nostro povero, frastagliatissimo, demoralizzato campo….progressista?

Il Fatto Quotidiano, 19 Luglio 2017

Nata a Pavia il 2 aprile 1952, è una filosofa italiana. Ha studiato alla Normale di Pisa, dove si è laureata nel 1976 con una tesi su Edmund Husserl.

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