La mania “short-term” che frena l’innovazione

28 Apr 2017

Una delle poche cose su cui gli economisti concordano è che l’innovazione tecnologica produce crescita economica nel lungo periodo. È largamente riconosciuto che gli investimenti pubblici e privati in ricerca e sviluppo, la formazione del capitale umano e le trasformazioni tecnologiche e organizzative che ne conseguono hanno portato a incrementi della produttività e della produzione nel lungo periodo.

Ma il modo in cui ciò avviene è argomento di accesi dibattiti. Il modello ortodosso neoclassico ritiene che il ruolo dell’innovazione consista nello spostare una funzione produttiva da una situazione di equilibrio a un’altra. Inversamente, i modelli evolutivi e schumpeteriani focalizzano l’attenzione sugli effetti “disequilibranti” dell’innovazione, che rendono meno rilevanti le funzioni produttive. L’enfasi degli economisti evolutivi sulla trasformazione e il cambiamento strutturale ha portato al concetto dei “sistemi innovativi”, che afferma che le imprese sono incastonate in una «rete [nazionale] di istituzioni, sia pubbliche che private, che promuovono e coordinano tali attività e la rete di istituzioni che importano, modificano e diffondono le nuove tecnologie».

Questi sistemi includono «gli elementi e le relazioni che interagiscono nella produzione, nella diffusione e nell’utilizzo di conoscenza nuova ed economicamente utile».

In questa visione, l’elemento trainante della performance innovativa nazionale non è semplicemente il livello di spesa per ricerca e sviluppo, ma la circolazione della conoscenza e la sua diffusione attraverso l’economia in generale. La visione dei sistemi non considera il processo di innovazione come qualcosa di lineare, ma come un insieme di anelli di retroazione tra mercati e tecnologia, applicazioni e scienza, politica economica e investimenti.

È questa visione del funzionamento dei sistemi nazionali di innovazione che rende tanto preoccupanti i recenti dati sull’ andamento della spesa per ricerca e sviluppo. Negli Stati Uniti, per esempio, se la quantità complessiva di investimenti in ricerca e sviluppo in percentuale del Pil resta relativamente alta (intorno al 2,8 per cento), è cambiata in modo eclatante la sua composizione. In primo luogo è diminuita la quota di investimenti del settore pubblico: dopo il picco del 67 per cento raggiunto nel 1964 è scesa fino al 25 per cento nel 2000 ed è salita al 30 per cento nel 2012, principalmente grazie agli stimoli temporanei introdotti dal governo americano dopo il crac finanziari. Lo stesso schema lo abbiamo osservato in molti altri paesi europei: per esempio, nel Regno Unito, la quota del settore pubblico nella spesa per ricerca e sviluppo è calata dal 43,5 per cento del 1985 al 30,2 per cento del 2000, e al 28,8 per cento del 2014; in Italia era ancora al 50,7 per cento nel 2005, ma nel 2013 era scesa al 41,4 per cento; nell’Eurozona in generale è calata di 3,4 punti percentuali tra il 2003 e il 2013 (dal 36,7 al 33,3 per cento).

In secondo luogo, se è vero che la spesa per ricerca e sviluppo del settore privato ha, in una certa misura, colmato l’ammanco, è vero anche che questa spesa si concentra sempre di più su aree di ricerca applicata, che hanno una portata più ristretta. (…) Insomma, le aziende hanno fatto più sviluppo che ricerca, per così dire. Il risultato è stato uno spostamento fondamentale nella composizione della ricerca e sviluppo a danno della ricerca di base. Questa tendenza, con ogni probabilità, ridurrà le opportunità di innovazione future, che hanno sempre avuto come traino un’ interazione forte tra ricerca di base e ricerca applicata sia nel settore privato sia nel settore pubblico. (…) Perché sta succedendo tutto questo?

Una delle ragioni per cui il settore privato investe meno in ricerca (più complicata dello sviluppo) è lo short-termism, la crescente ossessione delle imprese per il breve termine. L’ascesa del modello di governo di impresa fondato sul valore per l’azionista ha giocato un ruolo importante in questa minor propensione delle imprese a intraprendere progetti di investimento a lungo termine. Le pressioni degli azionisti possono limitare la capacità di investire in aree di innovazione a lungo termine, rendendo l’azienda reticente ad assumersi quei rischi che sono un requisito imprescindibile per l’innovazione (…).

A volte si parla di questa ossessione per il breve termine come se fosse qualcosa imposto alle aziende dalle ineludibili forze del “mercato”, ma è importante rendersi conto che non è una caratteristica intrinseca del capitalismo o dei mercati, bensì il risultato di tipologie specifiche di strutture manageriali, modelli proprietari e culture finanziarie. In realtà il mercato va visto come l’esito delle interazioni tra operatori economici differenti. L’ossessione per il breve termine è il riflesso di cambiamenti profondi avvenuti nel corso degli ultimi vent’anni (in particolare negli Stati Uniti e in Gran Bretagna), ma non c’è nulla di inevitabile o universale in questi cambiamenti. La letteratura scientifica sulle “varietà di capitalismo” ha dimostrato che in Giappone e in Germania (per fare un esempio) le imprese e il sistema finanziario tradizionalmente hanno una struttura molto diversa; e in qualsiasi economia si possono trovare aziende con prospettive di investimento a lunga scadenza.

Solo se abbiamo una visione chiara di come sono governate concretamente le aziende, e perché queste differenti governance si traducono in forme diverse di comportamento di mercato, possiamo spiegare in che modo possono contribuire alla crescita di lungo periodo o, al contrario, sabotarla.

È una questione che ha a che fare non soltanto con il settore privato in sé e per sé, ma anche con il suo rapporto con lo Stato, il “patto” che viene stretto fra governo e imprese. Negli ultimi anni questo rapporto mostra sempre di più caratteristiche che potrebbero essere definite “parassitiche”, con le imprese private che esercitano pressioni sui governi per allentare la regolamentazione e ridurre le aliquote sulle plusvalenze, ma allo stesso tempo riducono gli investimenti in ricerca di base, affidandosi in misura crescente, in questo ambito, alla spesa pubblica. Per garantire la crescita futura servirà una forma di collaborazione molto diversa tra settore pubblico e privato, caratterizzata da una simbiosi salutare e sostenibile nel lungo periodo.

(*) Il testo è tratto da “Ripensare il capitalismo” a cura di Mariana Mazzucato e Michael Jacobs

(Laterza, trad. di F. Galimberti pagg. 384 euro 24)

 Repubblica, 26 aprile 2017

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