Il caso Madia: etica della ricerca, etica della politica

02 Apr 2017

Tomaso Montanari

C’è un fortissimo, eloquente scollamento nelle reazioni che sta suscitando (e soprattutto non suscitando) il caso Madia.

Un’inchiesta del “Fatto Quotidiano” ha documentato che la tesi di dottorato del ministro, discussa all’IMT di Lucca nel 2008, contiene numerose frasi plagiate da opere di altri autori. Queste opere vengono, sì, citate in bibliografia, ma un assiduo lavoro di ‘copia e incolla’ ne innesta ampi stralci nel corpo della tesi, senza far uso di virgolette, né di note. Si tratta di una violazione serissima dell’etica fondamentale della ricerca. È sufficiente scoprire che il candidato ad una laurea triennale ha fatto una cosa del genere – anche solo una volta, in una singola pagina – per non fargli discutere quella tesi. Figuriamoci in una tesi di dottorato: quella con cui ci si guadagna, di fatto e formalmente, lo status di ricercatore.

Ora la domanda è: si tratta di una cosa grave, o no? E si tratta di una cosa che impedisce o no a Marianna Madia di guidare e riformare la Pubblica Amministrazione, dando la caccia ai «furbetti» che vi si annidano?

In Germania la risposta, in casi simili, è stata un forte sì. Nel corso di due anni (tra il 2011 e il 2013) il governo di Angela Merkel ha perso due ministri di peso, dimessisi entrambi a causa dell’accusa di aver plagiato parti delle rispettive tesi di dottorato. Il primo, il ministro della Difesa Karl Theodor zu Guttenberg, era un vero astro nascente della politica tedesca. La seconda era Annette Schavan, ministra dell’istruzione e particolarmente legata alla stessa Merkel. Ma – come scrisse il corrispondente di Repubblica Andrea Tarquini – «in Germania chi sbaglia paga, e in fretta, specie se siede al vertice politico, e non conta quanto stretti siano i suoi rapporti col capo dell’esecutivo».

In Italia, invece non solo il ministro Madia non ha manifestato alcuna intenzione di dimettersi, ma l’intero establishment sembra del tutto indifferente rispetto alla rivelazione del «Fatto». La stragrande maggioranza dei giornalisti, dei politici e persino dei professori ha preferito voltarsi dall’altra parte, convinta che si tratti di una bagatella. Il rettore dell’IMT, professor Pietro Pietrini, ha rilasciato dichiarazioni sconcertanti: «Con il senno di poi forse Madia un’ ingenuità l’ha commessa. In una piccola parte dei casi le fonti non sono indicate nel testo ma nella bibliografia. Una prassi comune all’ epoca, quando in Italia non c’ erano software antiplagio e nemmeno questa ossessione per le citazioni. Oggi ci saremmo accorti dell’ ingenuità, avremmo suggerito di spostare le citazioni. Ma è un dettaglio». Ora, chiunque ha anche una minima consuetudine con le norme elementari del metodo scientifico sa che non è affatto così: non è mai stato comune, né in Italia né altrove, attribuirsi testi altrui, citandoli senza virgolette, e semplicemente mettendo il testo in bibliografia. E infatti il codice etico dello  stesso IMT definisce plagio «la presentazione delle parole o idee di altri come proprie», e anche l’«appropriarsi deliberatamente del lavoro di altri o non citare correttamente le fonti all’interno del proprio lavoro accademico». E il plagio in una tesi è come il doping in una gara olimpica.

Ce n’è abbastanza per spiegare perché Marianna Madia dovrebbe dimettersi. In occasione delle dimissioni della Schavan, la Merkel disse: «La signora Schavan sa che i cervelli sono il capitale del paese, sa quanto siano importanti per le eccellenze delle buone condizioni di studio». E la stessa ministra dimissionaria, pur sostenendo di non aver copiato e di non aver celato comportamenti illeciti, si disse consapevole che una simile controversia non doveva «danneggiare l’incarico politico» che ricopriva. Idee così ovvie e diffuse, in Germania, che 23.000 accademici e semplici cittadini sottoscrissero un appello per le dimissioni di Guttenberg.

Da noi, invece, l’aria è diversa: il presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche dichiarò l’anno scorso che «il dovere nostro è di fare andare avanti l’Italia. Quindi, di fare sinergie, mettere insieme le forze – dico bene? – Mh! Senza pensare a …. a principi etici».

E questo è il punto: alla classe dirigente italiana non importa nulla della ricerca, e pochissimo dell’etica. Figuriamoci dell’etica della ricerca!

Ma se l’Italia non «va avanti» è a causa della corruzione, della disonestà, della furbizia e dei plagi: non certo a causa di un eccesso di etica. Il punto è questo: il fatto che si possa plagiare una tesi e poi diventare ministro della Repubblica, e soprattutto il fatto che, una volta che la cosa viene alla luce, non succeda nulla, è un colpo durissimo al futuro del Paese. Con quale faccia chiederemo ai nostri studenti (cioè ai cittadini di domani) di non copiare, di non fare i furbi? O di sopportare le conseguenze dei loro errori, cioè di essere responsabili?

E infatti, dopo l’appello in cui Libertà e Giustizia denuncia la gravita del caso, ho ricevuto centinaia di messaggi di studenti, dottorati, dottorandi e colleghi indignati. Molti da parte di giovani colleghi che, pur avendo discusso eccellenti tesi di dottorato senza plagi, oggi lavorano in call center, o sono emigrati all’estero. Come si può ignorare la loro sacrosanta indignazione? Come si può lasciare che diventi disperazione, disperazione verso una qualunque possibilità che l’Italia cambi?

Se è ancora pensabile che l’Italia conosca un futuro che non sia il prolungamento di questo orrendo presente, tutte le nostre speranze sono nel nesso tra la costruzione del sapere critico (che è la ricerca), l’etica e la politica. E solo un’opinione pubblica consapevole, vigile e serenamente severa può favorire lo sviluppo di questo nesso vitale. Per questo c’è una cosa peggiore di un ministro che ha copiato nella tesi di dottorato. Ed è un’élite che se ne frega, e la copre.

blog ARTICOLO 9 (la Repubblica.it),  31 Marzo 2017

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