Scuola: una società dello spettacolo a tempo pieno

22 Feb 2017

Tomaso Montanari

Scuola: una società dello spettacolo a tempo pieno. Il 26 giugno di quest’anno saranno passati esattamente cinquant’anni dalla morte di Don Lorenzo Milani.

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Per chi, come me, è cristiano, la persona, le parole e l’opera di Milani sono soprattutto una imitazione straordinariamente aderente della persona e dell’opera di Gesù (proprio nel senso altissimo dell’imitatio Christi). Immagino che qualcosa di simile provassero gli italiani del primo Duecento vedendo Francesco d’Assisi: un altro Cristo sulle strade del mondo.

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Per tutti gli altri, Milani – e soprattutto il Milani di Lettera a una professoressa e della Scuola di Barbiana – rappresenta soprattutto un modello di scuola possibile. Un modello ben noto, di cui mi limito qua a richiamare due punti essenziali: il metodo e il fine ultimo.

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Il simbolo del metodo di Barbiana è ancora lì, ed è assai tangibile: il grande tavolone di legno fatto dagli stessi scolari, anzi dai ‘ragazzi’. Didattica senza banchi, tutti intorno ad un tavolo. Un modello che non aveva niente a che fare con ciò che poi sarebbe esploso nel 1968. Le radici di questo approccio vanno cercare altrove, e cioè nella cultura altissima e nella consuetudine con la pratica accademica che don Lorenzo aveva respirato in famiglia: suo nonno era il grande numismatico Luigi Adriano Milani, il suo bisnonno il celebre filologo Domenico Comparetti. Ad aiutarlo, poi, ad orientarsi nella formazione, e ad esaminarlo circa la serietà del suo orientamento verso la conversione al cristianesimo e al sacerdozio fu Giorgio Pasquali, massimo filologo classico italiano del Novecento. È grazie a questa formazione che Milani cresce come un umanista, esattamente nel senso che lo storico dell’arte Erwin Panofsky fissa in questa formula: uno che rispetta la tradizione, ma contesta la verità. E il metodo di Barbiana non è altro che il metodo del seminario – consueto per la cultura accademica tedesca, e praticato per esempio da Pasquali e dai suoi allievi – per cui tutti gli studenti, anche le matricole, si siedono alla pari intorno ad un tavolo e lavorano insieme su un testo sotto la guida, incalzante e maieutica dell’insegnante.

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Se questo era il metodo, sul fine della Scuola di Barbiana don Milani non lascia alcun dubbio: è una scuola lontana mille miglia dalla retorica neoliberista della meritocrazia («Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo d’espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose» e «Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali»), una scuola che punta all’alfabetizzazione di tutti («La parola è la chiave fatata che apre ogni porta»), una scuola che non mira alla creazione di «una nuova classe dirigente, ma di una massa cosciente». Una scuola il cui fine ultimo è la formazione del «cittadino sovrano di domani».

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Metodo umanistico della critica storica e abilitazione all’esercizio della sovranità e della cittadinanza: non conosco una via più radicale di quella di Barbiana per l’attuazione del primo comma dell’articolo 9 della Costituzione, per cui «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca», intimamente legato all’articolo 1 secondo comma («La sovranità appartiene al popolo») e all’articolo 3, secondo comma («È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»).

Se questo è il metro, e io personalmente non ne conosco altri, come dobbiamo misurare la Buona Scuola, cioè la più stringentemente attuale prospettiva imposta alla scuola pubblica italiana?

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Una risposta, desolante, giunge dall’esame di uno dei suoi decreti attuativi, quello «sulla promozione della cultura umanistica, sulla valorizzazione del patrimonio e delle produzioni culturali e sul sostegno della creatività».

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L’articolo 1 chiarisce i principi e le finalità del provvedimento: «Il sapere artistico è garantito agli alunni e agli studenti come espressione della cultura umanistica … Per assicurare l’acquisizione delle competenze relative alla conoscenza del patrimonio culturale e del valore del Made in Italy, le istituzioni scolastiche sostengono lo sviluppo della creatività».

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Cultura umanistica, creatività e made in Italy (rigorosamente in inglese) sarebbero dunque sinonimi: per conoscere il patrimonio culturale, la Ferrari e il parmigiano (tutto sullo stesso piano) bisogna essere creativi. Si stenterebbe a credere alla consacrazione scolastica di questo ‘modello Briatore’ se la relazione illustrativa del decreto non fosse ancora più chiara: «Occorre rafforzare … il fare arte, anche quale strumento di coesione e di aggregazione studentesca, che possa contribuire alla scoperta delle radici culturali italiane e del Made in Italy, e alla individuazione delle eccellenze già a partire dalla prima infanzia». Insomma: fin da bambini bisogna saper riconoscere (e, inevitabilmente, desiderare) una giacca di Armani o una Maserati. E visto che si raccomanda «la pratica della scrittura creativa», la via maestra sarebbe fare il copywriter per gli spot, o scrivere concept per reality show, per rimanere alla lingua elettiva del Miur.

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Quale società è prefigurata da questa idea di scuola? Una società in cui non si riesca nemmeno più a distinguere la conoscenza critica dall’intrattenimento, l’essere cittadino dall’essere cliente, il valore delle persone e dei princìpi dal valore delle ‘eccellenze’ commerciali. Una società dello spettacolo a tempo pieno, un enorme reality popolato da ‘creativi’ prigionieri di un eterno presente, senza passato e senza futuro.

L’identificazione tra cultura umanistica, creatività e mercato nega e soppianta la vera funzione della vera cultura umanistica: che è l’esercizio della critica, la ricerca della verità, la conoscenza della storia. La necessaria scommessa di un umanesimo di massa è infatti quella di riuscire a praticare tutti, anche se in dosi omeopatiche, le qualità della ricerca: precisione, desiderio di conoscere e diffondere la verità, onestà intellettuale, apertura mentale. Per secoli si è creduto, a ragione, che queste virtù non servissero solo a sapere più cose, ma anche a diventare più umani: e che dunque non servissero solo agli umanisti, ma a tutti. E oggi sono il presupposto necessario perché le democrazie abbiano un futuro.

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La Buona Scuola o la Scuola di Barbiana: un bivio decisivo e drammatico. Due idee opposte di scuola, due idee opposte di società, due idee opposte del futuro della democrazia in Italia.

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Gilda. Professione docente, Numero 2 – Marzo 2017, 17 Febbraio 2017 

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