Il libro di Sandra Bonsanti/La poesia che vince la morte

14 Set 2016

Un libro ardente e insieme pieno di pudore questo di Sandra Bonsanti intitolato “Il canto della libertà”. Nelle sue pagine di memoria e di nostalgia ci si trova dentro i grandi temi della vita, la poesia salvatrice che vince anche la morte, la bellezza, l’ amore, la giustizia, il futuro, la libertà, soprattutto. È Omero, nell’Iliade, a far pronunciare per primo questa sacrosanta parola a Ettore, «dal grande elmo abbagliante», l’Eroe che si sacrifica per la sua città.

«La mia è solo una favola per essere meno sola», scrive umilmente Sandra Bonsanti nella premessa al suo “Il canto della libertà” (Chiarelettere). Giornalista in grandi testate, direttrice di quotidiani, parlamentare progressista, presidente per molti anni di «Libertà e Giustizia», testimone nei suoi libri di un presente non sereno, tra stragi, terrorismo, tentati colpi di Stato, inqualificabili personaggi, non ha firmato ora il libro che ci si potrebbe attendere da lei di denuncia e di furori.

Il suo Canto è un inno, oltre che alla libertà in nome della democrazia, al sapere, alla lettura, ai grandi poeti, che dimostra ancora una volta la contemporaneità del passato, in un momento inquieto come questo che stiamo vivendo. Un tempo, scrive, che ci riserva «la fine di molte certezze e l’ inizio di un viaggio su un terreno pericoloso, facile agli smottamenti».

Non è solo una favola “Il canto della libertà”. Il libro potrebbe anche essere definito un poemetto in prosa o un atto unico di teatro: il palcoscenico della fantasia è una piccola libreria dove un vecchio professore racconta e ricorda a una quindicina di ragazzi i segreti della poesia, architrave del mondo. «Saffo e la scoperta della libertà nell’antica Grecia» è il titolo di quegli incontri, un ciclo di dieci lezioni in una minuscola comunità che via via si crea.

Il libro è simile a una fontana che fa zampillare poeti e scrittori amati. Come dice il vecchio professore: «Vedete, i libri non tradiscono mai: se si affida loro un pezzetto di carta, quello resisterà per tutta la vita di quella generazione e anche dopo». Da un vecchio amato libro di Salvatore Quasimodo, I lirici greci, pubblicato nel 1940 (scomparso dalle librerie, nonostante il premio Nobel dell’autore), l’autrice del Canto, una dei quindici ragazzi, ritrova ad esempio in una pagina quasi bianca due versi di Alceo che rinnovano in lei antiche emozioni: «O coronata di viole, divina/ dolce ridente Saffo»: «Nella guerra della vita avevo abbandonato Saffo e Alceo, Platone e Socrate, ma tutti riemergevano imperiosi e imprevedibili dalla fioca luce della libreria di quartiere».

Socrate, Platone, Solone, Fedro, Alcmane, Pindaro, Catullo, Saffo, soprattutto, «la decima musa», «la bella», esule a Siracusa dove nel pritaneo, il luogo dove si alimentava il fuoco sacro, le era stata innalzata una statua rubata da Verre – il furto indignò Cicerone – e poi le piccole memorie di Sandra Bonsanti, laureata in Etruscologia studiando i sarcofagi etruschi scavati a Vulci: sono i fatti e i personaggi che popolano le pagine di questo libro senza modelli.

Ma tra ombre e fantasmi il vero protagonista è il professore che fa lezione alla piccola brigata di cui l’autrice non fa mai il nome: ricorda così l’uomo della sua vita, Giovanni Ferrara, uno dei grandi intellettuali del Novecento. Professore di Storia antica all’Università di Firenze – è morto nel 2007 – , autore di saggi storico-politici e di racconti, senatore repubblicano per più legislature, polemista acuto, sarebbe prezioso oggi nell’ immiserita classe dirigente nazionale, per la sua competenza, il suo equilibrio, la sua smisurata cultura, la sua umanità curiosa e prodiga, la sua sorridente saggezza di maestro naturale.

Suo padre Mario, famoso avvocato penalista, ebbe una vita stroncata per la sua intransigenza nei confronti del fascismo. «Fui chiamato Giovanni in ricordo di Amendola, raccontava il vero professore, Giacomo in ricordo di Matteotti, Piero in ricordo di Gobetti. È una fortuna, diceva talvolta mio padre in uno dei suoi momenti di umor nero, che i fascisti non abbiano ammazzato Salvemini, altrimenti ti avrei chiamato anche Gaetano» .

Giovanni Ferrara, si può dire, era un illuminista del presente, un matematico della ragione, una voce limpida e autentica tra cultura e politica, espressione proprio di quello spirito di libertà che è l’ anima di questo libro.

Corriere della Sera, 13 Settembre 2016

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