Luci e ombre di un sacerdote della libertà

05 Ago 2016

 

Benedetto Croce non ama la retorica. Il peggior torto che gli si possa fare, in occasione del centocinquantesimo anniversario dalla nascita, è osannarne la figura trascurando il senso critico che si connette alla funzione intellettuale. Gli «avvocati» che perorano la sua causa senza fremiti interiori e i nemici a priori tradiscono il gesto inconfondibile della libertà da lui sempre rivendicato.

Il 7 e l’8 giugno si sono presentati a Roma rispettivamente Il problema Croce di Paolo D’Angelo e l’opera Croce e Gentile. La cultura italiana e l’Europa, diretta da Michele Ciliberto e pubblicata dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani. Appuntamenti che seguono una serie numerosa di iniziative. Fra le più rilevanti: il Lessico crociano, curato da Rosalia Peluso, un progetto iniziato nel 2013 e terminato quest’anno, la costante attenzione della rivista «Diacritica», che nel mese di febbraio dedica al filosofo di Pescasseroli un ampio numero, e la conferenza dal titolo L’eredità di Benedetto Croce del XXI secolo, svolta di recente presso l’«Istituto italiano di cultura di Mosca» con la partecipazione di alcuni autorevoli studiosi italiani.

L’obiettivo è chiaro: interrogarsi sulla sua filosofia, capire cosa c’è di «vivo» senza celare ombre e aporie, trasmettere alle nuove generazioni la sua passione per la libertà con le lenti storiografiche dell’esperto, ma soprattutto con coinvolgimento emotivo. Un percorso ermeneutico che potrebbe sfociare in una solida critica alla sua dottrina, anche perché la «vita non si arresta» e non potrebbe inginocchiarsi neppure al sistema esposto, intorno ai primi anni del secolo scorso, dal grande avversario del fascismo. Croce stesso, in un suo celebre volume, richiama questo laico atteggiamento verso ogni fatica del pensiero.

Il divenire, ai suoi occhi, rinsalda le opere dell’umanità nel continuo sviluppo della coscienza spirituale. Di qui il suo rimprovero alle filosofie profetiche della storia, ai seguaci del riduzionismo, a tutti coloro che inchiodano la dimensione dell’uomo in un sentiero tracciato una volta per tutte. Il bersaglio principale è il positivismo. Croce cerca infatti di fronteggiare l’esasperazione del metodo scientifico, l’idea che il linguaggio dei numeri e della tecnica possa invadere le sfere dello spirito. La sua innovativa lezione estetica sorge come atto di ripulsa verso gli eredi di Platone e di Cartesio. L’arte di Croce si esaurisce in un soffio di vita che sfugge alle regole empiriche, alle curve sul profitto, all’universo etico e al rigore concettuale. Essa è un atto ingenuo di conoscenza che gode di autonomia e interloquisce con le altre categorie. Egli vuole restituire serietà al pensiero contro i volti dell’empirismo. La politica viene interpretata come un’azione individuale che si emancipa, a volte in modo spregiudicato, dai modelli preconfezionati e dai pigri formalismi, mentre l’impegno etico dovrebbe investire l’essenza religiosa della libertà. Marx gli rammenta l’efficacia decisionale e Machiavelli lo invita a resistere alle sirene del moralismo, Hegel gli offre i vantaggi teoretici della dialettica, Vico scopre la storicità del vero e De Sanctis lo avvicina al rispetto dell’arte.

Croce elabora così una filosofia dei «distinti» che metta in relazione i pregi istituiti dai suoi autori. Vi è tuttavia un problema in queste dottrine: il panlogismo, il materialismo e più in generale i residui trascendentali imprigionano, a suo parere, la libertà in luoghi prestabiliti. La libertà di Croce, invece, deve muoversi in un «circolo». Non ha meta. Tocca una parte vitale dell’essere umano e subito dopo insegue nuovi orizzonti. L’utilità cede il passo alla volontà etica, l’attività intellettuale riconsegna la parola all’impulso estetico in un ritmo infaticabile che abita nell’immanenza.

Il suo approccio culturale lo lega in parte a Gentile. Entrambi, com’è noto, conducono una battaglia coraggiosa al fine di riabilitare l’indirizzo umanistico in un Paese mortificato dagli adulatori del «fatto». L’«idealismo» crociano, seppur con difficoltà, non rinuncia al contesto pluralista e si contrappone con toni aspri all’attualismo del rivale. Le sue iniziali e controverse giustificazioni dell’operato fascista, la severa denuncia delle teorie democratiche e il suo fastidio nei confronti dei principi dell’89 mostrano i lati oscuri del suo storicismo. Elevando all’ennesima potenza, per dirla con Gaetano Salvemini, una «libertà e nient’altro», Croce si rende parzialmente insensibile alla sofferenza sociale. La sua prospettiva liberale, preziosa nel contrasto ad un qualunque regime totalitario, rischia di degenerare se non accompagnata dal convinto desiderio di abbracciare le ragioni degli «ultimi».

Unità, 3 agosto 2016 

 

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