Addio all’etica dell’uomo solo nell’era del passaparola web

30 Ott 2015

Ci sono essenzialmente due tipi di moralisti. Il primo, chiamiamolo “kantiano”, è il moralista assoluto, nel senso che considera la legge morale come qualcosa che esiste in lui proprio come, sopra di lui, c’è il cielo stellato, d’accordo con la conclusione della Critica della ragion pura che è assurta persino agli onori delle t-shirt.

Il moralista kantiano è incline al solipsismo, perché è insieme il legislatore e il legislato, ossia si sottomette, lui per primo, alla legge che si è dato. C’è di buono, però, che la legge deve superare un test impegnativo che scongiura, almeno in linea di principio, il solipsismo: la norma non deve valere solo per il legislatore-legislato, ma deve poter valere come principio di legislazione universale, ossia per l’umanità intera.

Che giovamento può dare il web al moralista kantiano? Essenzialmente un vantaggio conoscitivo, che non è poco,ma nemmeno tantissimo: può mostrargli quanto vasta e varia possa essere l’umanità, e dunque fargli capire quanto è facile sbagliarsi, ed essere, se non solipsisti, almeno parrocchiali o provinciali, quando si formulano princìpi morali che si pretendono universali.

Il secondo tipo di moralista, chiamiamolo “lévinassiano”, perché si riferisce alla teoria della morale come qualcosa che nasce in noi dal confronto con il prossimo elaborata nel secolo scorso dal filosofo Emmanuel Lévinas, che può trarre un vantaggio ben maggiore dal web.

Perché se la moralità lévinassiana viene suscitata dal confronto con l’altro, in quanto portatore di bisogni e di diritti con cui dobbiamo confrontarci, allora la proliferazione delle alterità che viene prodotta dal web non si limita ad arricchire la nostra casistica in vista della universalizzazione di una legge, come nel caso del moralista kantiano, ma potenzia enormemente la sensibilità morale, proprio perché ci mostra altri di cui, in assenza del web, non avremmo avuto neppure il sospetto.

E ce li mostra come presenti ed esigenti, non semplicemente come casi etnografici: l’altro, infatti, non è solo (né, in fondo, principalmente) il fatto di cronaca di cui veniamo a conoscenza attraverso il web (quell’altro esisteva anche ai tempi della televisione), ma è quello che si rivolge direttamente a noi, con una mail, ed esige risposta, con una provocazione e una convocazione diretta che non ha precedenti nella storia.

Tutto questo, però, a mio avviso, non ci rende di per sé “più buoni”, né “più morali”. Semplicemente, incrementa un meccanismo di responsabilità in precedenza impensabile, che incomincia con la necessità di rispondere alle infinite chiamate, scritte e orali, che ci raggiungono in continuazione, e che (se tutto va bene, e se il soggetto è predisposto) può trasformarsi in una responsabilità più vasta ed ecumenica, allargando i confini della alterità.

Ma, ovviamente, può anche avvenire il contrario: esposti a una alterità e a una responsabilità così forte ed esigente, possiamo benissimo generare forme di difesa e di de-sensibilizzazione, un po’ come avviene in guerra. Il che del resto dimostrerebbe, una volta di più, che la tecnica, ben lungi dall’essere uno strumento di alienazione, è uno strumento di rivelazione, ossia è lo specchio, e il potenziamento, nel bene e nel male, di quello che noi siamo.

la Repubblica, 29.10.2015

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