Crisi greca, la posta in gioco non è solo il debito

11 Feb 2015

A due settimane dalla vittoria elettorale di Syriza i termini dello scontro tra il nuovo Governo greco
e l’Unione Europea si delineano con chiarezza. Non è solo scontro tra dottrine e politiche economiche
diverse: una favorevole alla spesa pubblica, l’altra attaccata all’austerity. E meno che mai un
confronto tra euro sì ed euro no. In questa vicenda l’economia ha ceduto il posto alla politica; anzi,
a un puro rapporto di forze.

A due settimane dalla vittoria elettorale di Syriza i termini dello scontro tra il nuovo Governo greco
e l’Unione Europea si delineano con chiarezza. Non è solo scontro tra dottrine e politiche economiche
diverse: una favorevole alla spesa pubblica, l’altra attaccata all’austerity. E meno che mai un
confronto tra euro sì ed euro no. In questa vicenda l’economia ha ceduto il posto alla politica; anzi,
a un puro rapporto di forze.
Non è nemmeno, anche se così ci avviciniamo al nucleo del contendere, un confronto tra una politica
che mette al centro le persone e una politica incentrata sul denaro. In gioco c’è l’accettazione o il
rifiuto del dominio incontrastato di chi ha il denaro su chi denaro non ne ha: quel dominio che Marx
chiama Capitale, ben sapendo che esso è un rapporto sociale, le cui poste sono la ripartizione del
reddito tra salari e profitti (nelle loro varie forme), modi e tempi del lavoro, accesso ai servizi sociali,
appropriazione di tutto l’esistente: risorse naturali, vita associata, servizi pubblici, sapere, genoma,
salute.
Il problema non è se la Grecia restituirà o no il debito che i suoi governanti hanno contratto per suo
conto, come cercano di farci credere gli apologeti della finanza, spiegandoci che a pagare per i Greci
rischiamo di essere noi. È chiaro che quel debito «i Greci» non lo pagheranno mai: non hanno il
denaro per farlo ora; non lo avranno nemmeno in futuro; per almeno una generazione. Lo sanno tutti.
Ma a chi tiene i cordoni della borsa questo non interessa: basta che quel debito sia registrato nelle
scritture contabili e che tutti — creditori e debitori – si inchinino di fronte al suo potere. Perché
è con quelle scritture contabili che gli «gnomi» della finanza possono mandare in rovina, in 24 ore,
un intero popolo per diverse generazioni. Se e finché quel potere verrà loro riconosciuto. Ma disconoscerlo
non è facile. E mette paura. Soprattutto se a disconoscerlo si rimane da soli.


Anche il confine tra creditori e debitori, peraltro, è tutt’altro che netto. Prendete l’Italia. Ufficialmente
è creditrice della Grecia per 40 miliardi, prestati attraverso il, Bce, Fmi e Fondo salva-stati.
Peccato che per prestare quel denaro alla Grecia con il Fondo salva-stati, il nostro paese si sia indebitato
di altrettanti miliardi, andati ad aggiungersi alla montagna del suo debito pubblico: tanto
grande da metterla a rischio di fare la stessa fine della Grecia. Ma è così per tutti: il debito è come
una serie di scatole cinesi, una dentro l’altra, di cui, soprattutto in Europa — dove non esiste più una
Banca centrale «prestatore di ultima istanza» — non si intravede la fine.
Chi detiene il debito dell’Italia? Banche, assicurazioni e fondi speculativi (più qualche piccolo risparmiatore).
Ma banche e speculatori hanno acquistato quel debito facendo altri debiti. E questi chi li
detiene? Altre banche, altri fondi, altri speculatori. E così di seguito, fino a che non si incappa in un
pugno di riccastri (l’1 per cento – o forse per mille — della popolazione mondiale) che non sarebbero
mai diventati tali senza essere ben inseriti in questo marchingegno; e in un esercito di polli pronti
per essere spennati. Che, per svolgere normali attività di compravendita, o per garantirsi cure mediche,
vecchiaia e istruzione, hanno affidato i loro risparmi a quegli operatori. I quali, grazie alla mancanza
di controlli, hanno riescono a moltiplicare quel denaro a loro esclusivo vantaggio. Sono loro,
ora, i «prestatori di ultima istanza»: quelli che hanno il coltello dalla parte del manico. Ma è un
sistema tanto più fragile quanto più è macchinoso. Un granello di sabbia potrebbe farlo cadere rovinosamente,
come sette anni fa con il fallimento Lehman Brothers. Ma cadere da che parte? Verso un
regime ancora più autoritario, o verso una società che impara a governarsi da sola?


Messa in questi termini, si capisce la durezza di governi e autorità europee contro il programma di
Syriza. In gioco c’è proprio quel marchingegno, da cui dipende il destino dell’Europa così come è ora;
e forse anche gran parte dei rapporti tra le classi sociali e tra la società e l’ambiente in tutto il
mondo. Se il governo Greco riuscirà a «spuntarla» è perché mandarlo in malora rischia di far crollare
il castello su cui è costruito il potere di tanti governi fattisi tramite degli interessi dell’alta
finanza. E rischia di innescare un «effetto domino» capace di risucchiare dentro un grande buco
nero tutti i paesi più fragili dell’Unione europea, per arrivare poi a coinvolgere, uno dietro l’altro
anche quelli più solidi. Ma se il Governo greco la spunterà, sarà anche e soprattutto per l’appoggio
che riceverà da una mobilitazione che può e deve coinvolgere l’Europa intera. Per questo è così
importante la mobilitazione di sabato prossimo a sostegno del popolo e del governo greco!
Non sarebbe una vittoria da poco; sarebbe la dimostrazione pratica che l’autorganizzazione di base
e il mutuo sostegno pagano: che le farmacie e gli ambulatori aperti dal volontariato, le mense popolari,
le cooperative e i farmers market (i Gas), la televisione di Stato che ha continuato a trasmettere
su basi volontarie dopo la sua chiusura, le fabbriche autogestite, le monete alternative locali, e tutte
quelle iniziative appoggiando e promuovendo le quali Syriza è diventata maggioranza possono
essere l’inizio di una riorganizzazione dei rapporti sociali: un’organizzazione incentrata non più sul
potere del denaro, ma sui bisogni delle persone.
Questa è la vera posta in gioco dello scontro in atto. Le autorità europee non escludono certo nuove
forme di «aiuto» finanziario per le casse esauste del governo e delle banche greche; a condizione,
però, che venga rinnegato quel sostegno a una popolazione esausta, a un’occupazione ridotta ai
minimi termini, ai bisogni più elementari della gente; cioè al programma che l’elettorato ha votato
per far valere la propria dignità.
Concedere qualcosa in termini finanziari a un governo in crisi non costa molto: è solo un trasferimento
di qualche posta da un capitolo all’altro dei bilanci delle parti in causa. Ma concedere qualcosa
oggiAggiungi un appuntamento per oggi alla Grecia che si è ribellata al giogo della finanza costerebbe molto: sarebbe il segno che,
se si vogliono ricostituire le basi di una convivenza civile, si può e si deve fare a meno di «loro anche
in ogni altro paese. Le premesse ci sono tutte e in Spagna con Podemos, o in Croazia con «Barriera
umana», già si intravvedono forze che, ciascuna a modo suo, si sono messe sulla strada che ha portato
Syriza al governo.
E in Italia? Premesse ce ne sono anche qui. Anzi, forse non c’è un altro paese europeo che abbia una
ricchezza e una varietà di lotte, di movimenti, di comitati, di associazioni, di mobilitazioni, di iniziative
grande come da noi. Ma in nessun altro paese la possibilità di queste forze di rappresentarsi
politicamente è così compressa e dispersa. Soprattutto dal bisogno di autoperpetuarsi dei tanti partiti
«di sinistra», incapaci di quel passo indietro che tante volte si sono impegnati a fare e che mai –
nemmeno ora – sembrano capaci di attuare: per non perdere quei piccoli poteri che ricavano, soprattutto
a livello locale, di una consolidata subalternità al Pd. Ma i tempi sono ormai maturi per la comparsa
di una realtà nuova, mentre le responsabilità di chi impone questo stallo sono sempre più gravi.

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