Il senato e la discussione pubblica

08 Mag 2014

Una corrente di pensiero che va da John Stuart Mill ad Amartya Sen identifica la democrazia con il «governo tramite la discussione», o il «governo tramite il ragionamento pubblico», e suggerisce che la discussione pubblica è tanto più adeguata al metodo democratico quanto più essa è aperta e affrontata con spirito imparziale.

senatoA parte l’abolizione del bicameralismo perfetto, le riforme istituzionali proposte dal Partito Democratico e dal governo hanno raccolto sia consensi sia critiche. Queste ultime si sono concentrate sulla legittimazione di questo parlamento a realizzare riforme così estese, la loro coerenza interna, loro rispondenza al modello di democrazia disegnato dalla Costituzione. Vorrei tentare una considerazione più circoscritta, limitata alla decisione di ieri – la commissione affari costituzionali ha optato per un senato non elettivo – e alla discussione che l’ha preceduta. Per trattare questo tema assumerò che la camera dei deputati avrà una ‘buona’ legge elettorale e che il nuovo senato avrà competenze limitate ai diritti fondamentali e ai rapporti tra lo stato, le regioni e l’Unione Europea: entrambi questi temi sono oggetto di dibattito, ma per semplicità li do per assunti.
Una corrente di pensiero che va da John Stuart Mill ad Amartya Sen identifica la democrazia con il «governo tramite la discussione», o il «governo tramite il ragionamento pubblico», e suggerisce che la discussione pubblica è tanto più adeguata al metodo democratico quanto più essa è aperta e affrontata con spirito imparziale. Adam Smith, ad esempio, sostenne che le questioni pubbliche dovrebbero essere dibattute tenendo conto di come uno «spettatore equo e imparziale» guarderebbe ad esse: un esercizio mentale che ha lo scopo di aiutare chi partecipa alla discussione a liberarsi dei propri interessi particolari, pregiudizi, preconcetti. Naturalmente non vi è garanzia che la discussione produca un consenso unanime: è possibile che più opinioni confliggenti ma egualmente ragionevoli e plausibilmente fondate rimangano, nel qual caso spetta alla maggioranza decidere. Ma la discussione non può dirsi conclusa sino a che il merito di ciascuna delle posizioni confliggenti non sia stato pubblicamente sottoposto ad approfondito scrutinio, condotto con ragionevolezza e spirito d’imparzialità: senza una discussione di questo genere non vi è garanzia che la decisione sia pienamente razionale, oltre che giusta e – in senso lato – democratica.
Questo approccio pare particolarmente utile per decisioni che riguardano le istituzioni. Nel nostro caso stiamo discutendo della natura – elettiva o meno – di uno dei due organi del potere legislativo, la quale inciderà sia sulla qualità della discussione che si svolgerà intorno alle future politiche pubbliche, sia sulla qualità di esse.
La discussione sul senato dura da diverse settimane, ha coinvolto numerose voci, e si è svolta in parlamento, nel PD, sulla stampa e nella società civile. Chi voleva parteciparvi ha potuto farlo, e appare difficile sostenere che il PD e il governo abbiano rifiutato il confronto. Ma la discussione è stata inadeguata.
Forse sono stato disattento, ma gli argomenti usati per sostenere quella proposta sono solo questi: i futuri senatori non debbono essere pagati, al fine di ridurre i costi della politica, e non sarebbe possibile privare un senato non elettivo del potere di concedere la fiducia al governo e di approvare la sua politica di bilancio. La debolezza di entrambi questi argomenti è evidente, ed è stata persuasivamente dimostrata nel corso di queste settimane. Il secondo argomento – che si supera scrivendo una regola chiara nella Costituzione – richiama un problema innegabile, ossia la difficoltà di fissare un confine netto tra le leggi che richiedono il voto del senato e quelle che non lo richiedono: ma questo problema prescinde dalla natura elettiva o meno del senato. Ad esempio, qual è il confine tra politica di bilancio e diritti fondamentali? Per fare un caso estremo, se una legge dimezzasse il finanziamento alla scuola pubblica, si tratterebbe di una scelta di politica di bilancio (rimessa alla sola camera) o di una scelta in tema di diritto all’istruzione (sulla quale anche il senato dovrebbe pronunciarsi)? Il problema e la sua soluzione sono indipendenti dalla natura elettiva o meno del senato.
La discussione è stata inadeguata perché il governo e la dirigenza del PD hanno usato argomenti labili per difendere la loro proposta, e non hanno seriamente valutato il merito delle critiche o delle controproposte (penso, ad esempio, alla proposta di ‘ridurre i costi della politica’ tramite una parallela riduzione del numero dei deputati, che avrebbe anche l’effetto di spingere i partiti a selezionare più attentamente i propri candidati). Essi hanno insistito sulla loro proposta con argomenti che non riguardano il merito della questione: la necessità di far avanzare senza ritardi un progetto di riforma che intende restituire dignità alla politica, e, da ultimo, la necessità di sconfiggere il conservatorismo. Entrambi sono argomenti condivisibili, ma non ne consegue che il senato non possa essere elettivo.
La necessità di dare al paese un segnale forte di cambiamento è urgente tuttavia, e non deve essere trascurata. Essa però nasce soprattutto dal divario che si è aperto tra l’elettorato e la classe politica, il quale sembra derivare da un problema di rappresentanza: il paese non stima la propria classe dirigente non solo perché la giudica inadeguata, ed è insoddisfatto del suo operato, ma anche perché non ritiene che essa rappresenti i propri interessi. Il governo e la dirigenza del PD vogliono rendere le istituzioni politiche più efficienti. In questa situazione, tuttavia, le riforme dovrebbero mirare a renderle anche più aperte e inclusive: sia per correggere quel patologico difetto di rappresentatività, sia perché – tanto secondo la corrente di pensiero richiamata sopra, quanto secondo una più recente dottrina politico-economica – l’inclusività delle istituzioni è in larga misura condizione della loro efficienza (in altre parole, la scommessa di recuperare credibilità tramite il decisionismo rischia di rivelarsi perdente: un rischio grave nell’Italia del 2014).
Privare uno dei due rami del parlamento di piena legittimazione democratica diretta va in direzione opposta. Ora, è possibile che esistano buoni argomenti – diversi da quelli usati sinora, e magari legati a una più drastica riduzione delle competenze del senato – per proporre un senato non elettivo. Ma sino a che questi argomenti non saranno formulati e sottoposti a pubblica discussione, mi pare che optare per un senato non elettivo sia una scelta irragionevole e, presumibilmente, controproducente.
Il governo e la dirigenza del PD hanno già dato segnali forti e condivisibili di cambiamento, soprattutto in politica economica. Non credo che abbiano disegni autoritari, e presumo che le loro scelte siano ispirate all’interesse generale. Ma questa scelta mi pare un grave errore. Soprattutto perché nessuna delle due opzioni alternative –l’abolizione del senato, o la riduzione delle sue competenze e del numero dei suoi componenti – è stata seriamente confutata: suppongo che lo «spettatore equo e imparziale» di Adam Smith concluderebbe che il senato non elettivo è la peggiore delle tre opzioni.
Infine, mi sembrerebbe utile includere voci non solo italiane nella discussione. Il governo dichiara di volere un’unione politica in Europa, e in prospettiva un’unione federale. Al contempo, purtroppo, nell’attuale (squilibrato) assetto dell’Unione Europea il debito pubblico italiano resta una minaccia per la stabilità dell’unione monetaria. La discussione sulle nostre future istituzioni è quindi d’interesse per i nostri vicini, ed è nostro interesse ascoltare le loro opinioni. Coinvolgere voci europee, mantenendo naturalmente ferma la nostra sovranità politica, arricchirebbe il dibattito e costituirebbe un primo concreto esempio di unione politica, nella quale la discussione su temi essenziali informalmente si apre ai contributi del resto dell’Europa. È compito del PD, più che del governo, invitare i maggiori partiti europei a contribuire alla discussione sulle riforme istituzionali italiane.

*L’autore è socio LeG Milano e già capo dell’unità economica dell’ICO (International Civilian Office) in Kosovo

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