Se vuol ballare signor Contino

13 Gen 2014

SE VUOL ballare/ signor Contino/ il chitarrino/ le suonerò/: così canta uno dei protagonisti delle “Nozze di Figaro” mozartiane e così sembra atteggiarsi la politica italiana nei rapporti tra le varie forze (o debolezze) che si confrontano e si scontrano in un clima di crescente tensione economica e sociale.
Ne esamineremo alcune spassionatamente, senza dimenticare un’altra versione di quella illuminante cantata che così conclude: Se vuol venire/ alla mia scuola/ la capriola/ le insegnerò.
La capriola: questo è il rischio (o l’intenzione) che alimenta le tensioni e può creare una situazione che sfugga ad ogni controllo precipitando il Paese in un marasma dal quale sarà molto difficile uscire.
Comincerò dal mio articolo di domenica scorsa dove ricordavo che cosa era la questione morale concepita da Enrico Berlinguer agli inizi degli anni Ottanta. La questione morale, per lui, era l’occupazione delle istituzioni da parte dei partiti, una prassi che a suo giudizio doveva immediatamente cessare.
Le istituzioni (così pensava e diceva) ciascuna nel suo campo sono titolari dell’interesse generale; i partiti sono invece portatori di una visione del bene comune, visione che differisce da partito a partito, si confronta con le altre e riscuote il consenso degli elettori. Chi vince quella competizione ha il diritto di influire sulla composizione del governo sapendo però che quel governo nel momento stesso in cui si insedia deve perseguire l’interesse generale sia pure tenendo presente la visione del bene comune prevalente nel Parlamento.
Questa era la concezione di Berlinguer e questo è scritto nella Costituzione la quale attribuisce al Capo dello Stato il potere di nomina del presidente del Consiglio e dei ministri che quest’ultimo gli propone.
La tesi di Berlinguer era sottile ma logica. Purtroppo nessuno ne ha mai tenuto conto nei fatti anche se le ha reso omaggio a parole. Il governo è certamente un “governo amico” della maggioranza parlamentare la quale però non può considerarlo uno strumento nelle sue mani. Sono due poteri distinti, il Legislativo e l’Esecutivo. Il primo approva o modifica o respinge i disegni di legge del secondo e controlla con attenzione i comportamenti della pubblica amministrazione. Può anche abbattere il governo ritirandogli la fiducia.
È evidente che si tratta di equilibri assai delicati e continuamente a rischio ma questo schema, quando viene rispettato, fa il bene del Paese; quando viene invece manomesso quella che Berlinguer chiamava la questione morale si ripropone in tutta la sua gravità e sconvolge la vita politica.
*** Ho ricordato questo dibattito, che ebbe luogo nei primi anni Ottanta del secolo scorso, perché mai come ora dovrebbe valere la distinzione tra l’interesse generale affidato alle istituzioni e la visione del bene comune in base alla quale i vari partiti cercano il consenso degli elettori.
Il partito che nell’attuale legislatura ha il maggior numero di seggi in Parlamento è il Pd, rappresentato dal neo-segretario Matteo Renzi. La visione del bene comune del Pd dopo le primarie dello scorso dicembre è sempre quella di un “riformismo radicale”, come lo definì Veltroni nel discorso di fondazione al Lingotto di Torino, ma il significato è profondamente diverso. Il cambiamento riguarda al tempo stesso la società
e il partito, i suoi obiettivi e soprattutto la sua classe dirigente. È nata una nuova leadership, quella appunto del sindaco di Firenze; cambiano i dirigenti centrali e locali, cambiano gli obiettivi, cambia il rapporto tra il partito di maggioranza relativa e il governo in carica.
Il presidente del Consiglio si è incontrato ufficialmente col neo-segretario venerdì mattina alle 8 e, almeno in apparenza, il colloquio è andato bene: sono stati delimitati i rispettivi campi d’azione e si è parlato anche, “sobriamente” dei contenuti. Letta avrà il compito di governare e Renzi di portare avanti tutte le iniziative di spettanza del partito, a cominciare dalla legge elettorale.
In apparenza è tutto condiviso e regolare, ma c’è un aspetto della situazione che sembra sfuggire all’attenzione del sindaco di Firenze: il governo Letta non è sorretto soltanto dal Pd, ma da una coalizione di varie forze tra le quali la principale è il Nuovo centrodestra di Alfano. Una riforma delle legge elettorale che penalizzasse alcuni dei partiti della coalizione potrebbe portare alla crisi di governo. Al di là delle apparenze questo è dunque il punto sensibile che alimenta la tensione tra Letta e Renzi. *** Queste difficoltà e pericoli i protagonisti li conoscono bene. Per superarli è necessario un compromesso che non dovrebbe essere difficile da raggiungere se non ci fosse un altro aspetto della situazione: la nascita di una nuova leadership che è appunto rappresentata da Renzi.
I sondaggi di vari specialisti confermano che il solo e vero legame che tiene unito il Pd e ne rafforza la crescita è la nuova leadership la quale però deve dimostrare la sua presenza per essere realmente avvertita dagli elettori effettivi e potenziali. Il compromesso non soddisfa queste aspettative, il “riformismo radicale” d’un nuovo leader deve puntare su una rapida fine del governo e della legislatura. E se, per ottenere questo risultato, Renzi deve intendersi con Vendola, con Landini, con il Movimento 5 Stelle e perfino (perfino) con Berlusconi, lo faccia. Se adotta una politica economica che metta in discussione le coperture finanziarie previste dagli impegni di Bruxelles lo faccia. Se il “Jobs Act” rischia di diventare uno strumento esplosivo, tanto meglio: l’Europa subirà.
Questa è la spinta che arriva dal basso e che per certi aspetti sembra paradossale perché è proprio da sinistra che viene questo tipo di consenso.
Da questo punto di vista è stato di notevole interesse il dibattito avvenuto venerdì’ scorso nella trasmissione “Otto e mezzo” diretta da Lilli Gruber, tra Stefano Rodotà e Paolo Mieli. L’ho seguita con molta attenzione e credo valga la pena di darne un sommario racconto. *** I due invitati mi avevano incuriosito. Li conosco entrambi da molti anni, Rodotà cominciò a collaborare a “Repubblica” fin dai primi numeri, Mieli fu assunto all’Espresso nel 1966, e se ben ricordo aveva 18 anni o poco più. Immaginavo, conoscendoli, che Rodotà avrebbe puntato sul “mantra” dei diritti e della Costituzione e Mieli avrebbe trovato i modi per contraddirlo opponendogli la realtà dei fatti che impone altri e più pragmatici percorsi. Invece sbagliavo e lo si è capito fin dalle prime battute. Per 35 minuti i due hanno danzato un minuetto dove Mieli conduceva e Rodotà completava e infiocchettava. Perfino la Gruber era stupita o almeno così m’è sembrato. I due interlocutori erano d’accordo su tutto e di volta in volta si felicitavano reciprocamente di quell’accordo. E non erano questioni da poco quelle che venivano affrontate.
Mieli aprì con un attacco agli intellettuali che non avevano trovato il coraggio di opporsi alla decadenza del Paese dagli anni Settanta in poi. Rodotà assentì portando l’esempio deludente del Pds che, dapprima battagliero, poi si ritirò rientrando in buon ordine sotto le ali della vecchia nomenclatura occhettiana.
Poi tutti e due si dichiararono in favore di Renzi che aveva aperto a Landini, discuteva positivamente con Vendola, voleva abolire la Bossi-Fini e reclamava le coppie di fatto legalizzate. Per di più, dissero tutti e due, ha capito che sui grillini con prudenza si può puntare.
La conduttrice chiese giudizi su Letta. Tutti e due riconobbero che è una brava e onesta persona, ma politicamente mediocre; prima se ne andrà meglio sarà.
Un giudizio su Napolitano? Sta modificando la sua posizione su Letta. Comunque è bene che rimanga al Quirinale fino a quando non ci sarà più bisogno di lui. Un giudizio sull’ipotesi che Berlusconi si ripresenti alle elezioni? Questione da approfondire.
L’affondo finale di Mieli è stato contro la politica che avrebbe dovuto provvedere da sola a costruire e ricostruire il Paese e invece ha chiamato in supplenza la magistratura. Lo fece per combattere il terrorismo e lo rifece per combattere Berlusconi. Rodotà ha dato beneplacito, Gruber ha ringraziato.
Da questa trasmissione ho capito bene la forza di Renzi. Mieli e Rodotà non sono persone da poco, uno è un giurista di valore, l’altro uno storico molto serio di storia moderna e da qualche anno anche di storia antica.
Una sola cosa mi ha lasciato perplesso: come poteva la politica combattere il terrorismo senza che la magistratura intervenisse? Era gente che ammazzava innocenti per ammazzare i simboli dello Stato che essi rappresentavano. E come poteva la politica impedire la supplenza della magistratura nel caso Berlusconi? Ha commesso reati, c’è una condanna definitiva della Cassazione (ancora non eseguita). Sono reati. La politica è sicuramente impigrita e castale, ma sia per il terrorismo e sia per Berlusconi la magistratura non gioca in supplenza; gioca in prima persona e su questo non c’è proprio altro da aggiungere.

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