Lo smarrimento della politica

30 Ott 2013

La cosa stravagante è che i parlamentari che hanno approvato la legge Severino vagano cercando qualcuno che gli spieghi cosa hanno approvato. Meglio se un giudice, di cui stiracchiare di qui o di là una parola. Così l’incandidabilità per 6 anni di chi abbia riportato condanne per reati come la frode fiscale di Silvio Berlusconi, e la decadenza da dichiarare «immediatamente» nel caso costui sieda già in Parlamento, nella bagarre politica diventano indifferentemente una sanzione penale, o una sanzione amministrativa, o non una sanzione ma un difetto di requisito. Anche a prezzo della coerenza e sprezzo del ridicolo.
Per mesi dalla trincea berlusconiana si era tenacemente argomentato che l’incandidabilità/decadenza fosse assimilabile a una sanzione penale e dunque non potesse essere applicata retroattivamente. Ieri invece ecco l’esultanza Pdl perché la Corte d’appello di Milano — nel motivare i 2 anni di pena accessoria dell’interdizione di Berlusconi dai pubblici uffici, conseguente alla condanna definitiva alla pena principale di 4 anni di reclusione (3 coperti da indulto) per frode fiscale sui diritti tv — si sarebbe «allineata alle doglianze del Pdl» e avrebbe «appena detto che l’incandidabilità è una sanzione amministrativa, e pertanto non è retroattiva». Il «pertanto» si fonda sulla legge 689 di trentadue anni fa, per la quale «nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione»: questa legge ordinaria del 1981 era però la legge sulla depenalizzazione, e le sanzioni evocate erano quelle conseguenti appunto a violazioni amministrative.
Ma il punto è soprattutto che la Corte d’appello nelle motivazioni (che su alcuni siti, ad esempio Repubblica.it , compaiono per tutto il giorno in una strana versione non originale, con frasi apocrife nelle pagina 4 e 5, addirittura con l’erronea indicazione a pagina 9 dell’interdizione «per il periodo di tre anni» anziché «di due anni») fa un ragionamento opposto perché spiega di essere competente sull’interdizione conseguente alla condanna penale, e non su incandidabilità e decadenza conseguenti alla legge Severino.
Sono due cose del tutto differenti, rimarcano il presidente Arturo Soprano e le colleghe Maria Rosaria Mandrioli e Simona Improta, e perciò giudicano «priva del requisito della rilevanza» e «manifestamente infondata» la questione di costituzionalità posta dalla difesa Berlusconi circa le asserite modifiche incongrue che la legge Severino avrebbe apportato alle regole penali sull’interdizione: non è così, scrive la Corte, «l’attribuzione dello status di incandidabile a un soggetto condannato per determinati reati non integra alcuna sanzione penale». Nella legge Severino, infatti, «la condanna penale è presa in considerazione come presupposto» (e la parola viene sottolineata graficamente), cioè «crea una sorta di status negativo del soggetto che ne impedisce la candidabilità».
Insomma, ci sono «da un lato le pene accessorie penali che devono essere irrogate dall’Autorità Giudiziaria e, dall’altro, la sanzione di incandidabilità, discendente dalle sentenza di condanna, riservata all’Autorità Amministrativa». Ma è appunto l’uso della parola «sanzione» a galvanizzare il Pdl, al pari del termine «irrogare» subito dopo: «Non è neppure revocabile in dubbio che l’Autorità competente ad irrogare tale ultima sanzione (ben diversa da quella penale) sia l’Autorità Amministrativa e non l’Autorità Giudiziaria, come si evince dalla stessa legge Severino (art. 2 e 3) che attribuisce tale competenza all’Ufficio elettorale regionale o direttamente alla Camera di appartenenza del destinatario della sanzione».

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