L’altro pianeta del Cavaliere

31 Ott 2012

Barbara Spinelli

È questo bisogno di giustizia che l’ex Premier offende, disattento alla Sicilia e all’Italia in mutazione. Ogni processo è ritenuto veleno, che ammorba la democrazia e la spegne. La magistratocrazia si sostituirebbe eversivamente alla democrazia, contro il popolo sovrano

Una domanda inarrestabile di cambiamento: ma vero. Un bisogno che sia fatta giustizia dove regnano malaffare, malavita, malapolitica. Le elezioni siciliane dicono questo, e sconfessano i politici-padroni che l’isola l’hanno usata, blandendola e sprezzandola. Sì, la giustizia è al centro, e forse è il caso di ricordare come nascono – per servire chi – i tribunali contro i quali Berlusconi ha inveito, a Villa Gernetto, con lo spirito vendicatore di chi sente di dover restare in campo per riformare il “pianeta giustizia” che lo castiga.

Forse è il caso di ascoltare il grido di rabbia, e anche di speranza, che sale dalla Sicilia, questa terra dove fare giustizia è scabroso. Un sindaco anti-mafia, Rosario Crocetta, diventa governatore anche se il Pd è alleato con gli ex tutori di Cuffaro nell’Udc. La vecchia battaglia di Grillo per un Parlamento pulito (2005), che escluda condannati di primo, secondo e terzo grado, ha ottenuto un premio enorme: il suo Movimento è primo partito dell’isola. Non ha usato, stavolta, l’arma del web: Grillo ha battuto città dopo città come i professionisti d’un tempo, facendo comizi per ben 20 giorni. I siciliani, allibiti, si sono sentiti onorati, visti, non identificati con la mafia che pretende incarnarli. Il Movimento offre anche un orizzonte non eversivo: Grillo non ha torto quando dice che senza di lui saremmo sommersi da neonazisti come in Grecia e Ungheria.

Chi vive in un altro pianeta è Berlusconi, che tutto questo non l’ha presentito. Per questo vale la pena ricostruire la genesi dei tribunali. La giustizia, i processi, le leggi, esistono in primo luogo per l’innocente, per il senza potere: non per il reo da condannare. Se c’è desiderio che sia fatta luce su chi vilipende il bene comune (in Sicilia anche la bellezza comune), è perché l’innocente non sia confuso con il colpevole, sprofondando in una melma dove non distingui nulla. È questo bisogno di giustizia che l’ex Premier offende, disattento alla Sicilia e all’Italia in mutazione. Ogni processo è ritenuto veleno, che ammorba la democrazia e la spegne. La magistratocrazia si sostituirebbe eversivamente alla democrazia, contro il popolo sovrano.

Il dubbio che i processi siano al servizio soprattutto degli indifesi non lo sfiora: lui, condannato per truffa ai danni dello Stato, si presenta come vittima, perfino capro espiatorio. Non sa che per definizione il capro è innocente: che proprio per questo il rito è barbarico. Non c’è, nel capro, la “naturale capacità a delinquere” che i giudici di Milano ravvisano in Berlusconi: non sarebbe agnello sacrificale, se avesse questa capacità.

È importante che gli italiani sappiano che l’idea stessa di giustizia  –  pietra angolare della pòlis  –  è negata, ignorata, da chi parla del pianeta giustizia quasi estromettendola dall’orbita terrestre. Che sappiano quel che spinge Berlusconi condannato ad aborrire le sentenze che lo riguardano ma anche, d’un sol fiato, quelle che giudicano colpevoli di incuria gli scienziati che tranquillizzarono gli abitanti dell’Aquila e dintorni, raccomandando di restarsene in casa perché la grande scossa del 6 aprile 2009 era invenzione della paura. Non è escluso che la stessa ripugnanza tocchi alle sentenze del giudice per le indagini preliminari a Taranto, che ha punito la disinvoltura, all’Ilva, con cui la salute dei cittadini è stata per anni messa a repentaglio.

Non è vera follia, perché sempre nelle follie dell’ex Premier c’è un metodico fiuto di rancori nascosti: non della società, ma certo del “suo popolo”. Rancore per le tante sentenze, che invadono i campi più diversi perché arati senza legge e controlli a fini privati. La lotta a chi froda impunemente, la protezione dalle catastrofi naturali o da acciaierie tossiche, ma anche la custodia della nostra ricchezza che è il patrimonio artistico: sono mansioni che dovrebbero competere allo Stato, non ai magistrati. I quali non sono giudici vendicatori, e nemmeno chirurghi che guariscono alla radice i mali dell’incuria cialtrona. Possono intervenire solo a danno o crimine compiuto, e non per cambiare le leggi, selezionare onesti amministratori, presidiare il bene pubblico prima che il malaffare lo sfasci. È quel che diceva Borsellino, quando insisteva sull’obbligo propedeutico dei politici di far pulizia a casa propria, sventando patti mafiosi. Lo dice a 23 anni di distanza Ingroia, procuratore aggiunto a Palermo, quando invoca, contro la ‘ndrangheta radicata ormai stabilmente a Nord, un “cambio di classe dirigente e di ceto politico”, tale che si possa “girare la pagina” e bloccare le contrattazioni Stato-mafia. Fu ancora Borsellino, il 22 giugno 1990 in un dibattito a Roma (il tema era “Stato e criminalità organizzata: chi si arrende?”) a replicare che lo Stato non si era arreso, non avendo combattuto. Attilio Bolzoni magistralmente scrive su Repubblica che qualcosa mancherà nel processo sulle stragi del ’92-93. Non un pentito di mafia: “Quel che è sempre mancato è un pentito di Stato”.

Cambiare classe dirigente non significa cambiar facce, o rottamare. Significa interrogarsi severamente sulla giustizia omessa, sul vuoto di politica che moltiplica le sentenze, e porre rimedio premurandosi del bene comune. Compreso il bene europeo, altro bersaglio di Berlusconi (perché dobbiamo tener conto delle inquietudini dei tedeschi? si chiede stupito). Significa riconoscere che non solo governanti e politici debbono apprendere la responsabilità e la giustizia, ma anche la classe dirigente non schierata. Anche chi, specialista o manager, ha poteri d’influenza: tecnico della scienza, dell’economia, delle imprese. Tutti questi potenti tendono a diffidare della magistratura, e non a caso c’è un ministro, Corrado Clini, che giunge sino ad equiparare la condanna di Galilei e quella dei sette scienziati 3 che minimizzarono gli sciami sismici incombenti sull’Abruzzo dal dicembre 2008. Come se gli scienziati fossero accusati di scarsa preveggenza, non di avere perentoriamente escluso rischi gravi. Non di aver servito il potere politico (Bertolaso, Berlusconi) che voleva occultare la verità ai cittadini.

Non dimentichiamo uno dei sette, Bernardo De Bernardinis, che consigliava di chiudersi in casa (in casa! uno scienziato dovrebbe sapere che la casa uccide, nei terremoti) e per calmarsi di bere un bicchiere di Montepulciano in più (video 4). Non dimentichiamo lo scienziato Enzo Boschi, che il 9 aprile si piegò all’ingiunzione di Bertolaso: “I sismologi mi servono per un’operazione mediatica (…). È ovvio che la verità non la si dice” (audio 5). In Todo Modo, Leonardo Sciascia fa dire al luciferino protagonista, Don Gaetano: “Le cose che non si sanno, non sono”. Ecco come le classi dirigenti tradiscono. Non il giudice unico dell’Aquila, Marco Billi, è il cardinale Bellarmino censore di Galilei, ma il potere politico che asservisce la scienza. Chi ammorba la democrazia è Berlusconi che truffa, non il tribunale di Milano.

Se a fare le cose con senso di giustizia fossero i politici, i comitati scientifici, gli imprenditori, non avremmo questa riduzione d’ogni gesto all’aspetto penale. Ma è anche vero che senza sentenze, oggi, l’uomo diverrebbe lupo per l’uomo. Perché la catarsi della politica e delle classi dirigenti ancora non c’è. Perfino il governo Monti esita, con le sue leggi anticorruzione piene di indulgenze; anche se ha deciso, grazie a Di Pietro, di costituirsi parte civile nel processo di Palermo sulle trattative Stato-Mafia.

Già, Palermo. Anni di omertà e umiliazione non cancellano la sete di giustizia. È quello che ha dato le ali a Grillo. Non perché si sia dilungato sulla mafia, ma perché per quasi un mese si è messo in ascolto delle collere siciliane. Il grido che sale dalla Sicilia è la risposta più forte all’urlo di Berlusconi a villa Gernetto. A parole che pesano, non raddrizzabili. Per citare ancora Sciascia, parole simili “non sono come i cani, cui si può fischiare a richiamarli”.

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