Intercettazioni: ricordando il ’97

25 Lug 2012

Proprio nel giorno in cui la Procura di Palermo chiede il rinvio a giudizio di dodici indagati (tra cui sei uomini delle istituzioni e politici) per la cosiddetta “trattativa” Stato-mafia nei primi anni 90, ci pare giusto e utile fare un approfondimento su un tema che in queste settimane ha avuto largo spazio, a volte con toni appassionati, sulla stampa:  la legittimità delle intercettazioni indirette che hanno coinvolto il Capo dello Stato Napolitano. Pensiamo infatti che più elementi di riflessione e di giudizio si hanno, meglio si può capire. Soprattutto bisogna evitare di creare un grande polverone indistinto, nel quale alla fine i veri responsabili delle trame oscure si nascondono e si perdono.
Tra coloro che sostengono la tesi che le telefonate del Presidente con Mancino (ancorché irrilevanti ai fini dell’inchiesta) devono essere portate in udienza  davanti al giudice delle indagini preliminari (gip), per essere valutate dalle parti; e gli altri, che chiedono, invece, la distruzione, senza nessun vaglio processuale, si colloca l’interpretazione giuridica precisa ed ineccepibile esposta su questo sito alcuni giorni fa (‘Un parere tecnico’) da Ubaldo Nannucci, ex procuratore capo di Firenze. Il quale osserva che rientra appieno nei poteri del pm “disporre la separazione delle parole del Capo dello Stato dal contesto della registrazione, per raccoglierle in un separato strumento sigillato e a chiunque intercluso (…..) da iscrivere nel modello degli atti non costituenti reato”.
Quindi, mentre la registrazione non può essere “distrutta” dal pm, poiché tale atto, eventualmente, può essere disposto dal giudice dopo l’udienza con le parti, il pubblico ministero può ben procedere allo stralcio e conservazione per cinque anni,  di “conversazioni che non dovevano in alcun modo essere raccolte”.
Fin qui la riflessione del magistrato. Ma c’è un altro profilo da conoscere – quello parlamentare –  per comprendere i motivi del contrasto attorno alle telefonate del Capo dello Stato intercettate (e quindi anche le ragioni del conflitto di attribuzione sollevato da Napolitano davanti alla Corte Costituzionale). Il Senato se ne occupò ampiamente il 7 marzo 1997, perché il quotidiano “Il Giornale” pochi giorni prima aveva pubblicato la trascrizione di intercettazioni telefoniche (con un  banchiere in fallimento) cui aveva partecipato (nel 1993) l’allora Presidente della Repubblica, Scalfaro. Molte furono le interpellanze (Cossiga, Salvi, Elia, Schifani), per sapere dal Ministro della Giustizia (Giovanni Maria Flick) del governo Prodi, “se si ritenga conforme ai principi costituzionali l’intercettazione di una conversazione telefonica cui partecipi il Capo dello Stato”, del quale “va in ogni caso salvaguardata l’indipendenza per il libero esercizio delle sue altissime funzioni”.
Flick (che poi diventò giudice della Corte costituzionale e presidente nel 2008), rispose con chiarezza che “la inviolabilità delle comunicazioni del Presidente durante l’incarico trova testuale riconoscimento nella legge 5 giugno 1989 n.219 in tema di attentato alla Costituzione (…) che vieta di disporre intercettazioni
telefoniche nei confronti del Presidente(….) ne discende che il divieto di intercettazione (…) è assoluto: deve ovviamente ritenersi che il divieto si riferisca non solo alle cosiddette intercettazioni dirette, ossia su utenze di cui il Presidente abbia la disponibilità, ma anche alle cosiddette intercettazioni indirette a cui il Presidente
partecipa(…). Non può infatti essere rimessa al sindacato successivo della autorità giudiziaria rispetto alla intrusione, la distinzione tra atti riconducibili all’esercizio delle funzioni e atti estranei a tale esercizio (,,,). Ne deriva il divieto in maniera assoluta di trascrizione e deposito della registrazione relativa ad una comunicazione del Capo dello Stato intercettata. Ciò sia nel caso in cui essa sia stata illecitamente disposta ed eseguita, sia nel caso in cui sia stata accidentalmente captata su utenza di terzi legittimamente sottoposta a controllo (…). Non v’è ovviamente ragione di distinguere tra intercettazione diretta e indiretta: il principio generale enucleabile del sistema vuole impedire la intercettazione delle conversazioni del Presidente comunque effettuate durante la carica”.
E’ davvero superfluo osservare che le parole di un ministro della Giustizia, sia pur grande ed autorevole giurista, in un dibattito parlamentare, non hanno valore di legge. Però non è neppure possibile considerarle solo vane chiacchiere. Comunque, con onestà intellettuale, Flick allora concluse: “Va precisato che tale ricostruzione è frutto di una interpretazione sistematica e non trova riferimenti letterali nella normativa codicistica (…). La disciplina in materia merita un intervento chiarificatore”. Che si attende da quindici anni, inutilmente. Tutto ciò ovviamente significa che nella condotta dei magistrati, ancora oggi, non c’è inosservanza delle disposizioni di legge, questo è evidente. E significa anche che Napolitano, con il conflitto di attribuzione, ha deciso, proprio davanti all’inerzia parlamentare, di chiedere chiarezza alla Consulta,  in modo definitivo.
Ma in quel lontano dibattito fu richiamata l’attenzione  anche su un articolo della legge penale a tutela del Capo dello Stato, dal senatore Leopoldo Elia, scomparso nel 2008, altro grande giurista (già presidente della Consulta e ministro delle Riforme con premier Ciampi). Nel suo intervento Elia osservò che “….per tutelare il Presidente della Repubblica nei casi limite in cui sia messa in pericolo veramente la sua indipendenza, il codice penale prevede l’articolo 277, volto a garantire il Capo dello Stato anche al di fuori dei casi previsti nell’articolo 276 (che sanziona gli attentati alla persona fisica del Presidente). L’articolo 277, invece, ne tutela la libertà psichica, per evitare che un certo tipo di assedio, di accuse e di insinuazioni possano ledere la libertà e l’indipendenza di decisione del Presidente della Repubblica stesso”.
L’intervento di Elia, in queste settimane di polemiche, è stato ricordato da pochissimi commentatori, Andrea Manzella tra questi (che definisce Elia “il prudentissimo giurista”).  Del dibattito parlamentare del 1997 ha anche dato una breve sintesi, con le parole di Flick ed Elia, l’agenzia Ansa in una nota di dieci giorni fa (firmata dalla corrispondente da Montecitorio Anna Laura Bussa). Prima o poi, qualcuno, forse, si chiederà se verso Napolitano non c’è (o c’è stato) “un certo tipo di assedio” che ricade nell’articolo 277, e che non c’entra nulla con la sacrosanta ed indispensabile ricerca della verità storica e giudiziaria (per “Processare lo Stato infedele” come chiede LeG nel suo appello) sul ‘patto’ degli anni 1992-93.

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