Il Partito, non più Principe ma Utile Sherpa

16 Apr 2012

Se si vuole sconfiggere l’antipolitica (nei suoi aspetti minacciosi per la democrazia) occorre che i partiti si rassegnino a un ruolo assai più modesto che in passato. Solo così i cavoli dei partiti e la capra della democrazia potranno essere salvati. Leggi anche l’articolo di Reichlin

L’Italia sta attraversando una fase in cui i sentimenti antipolitici sono virulenti. Ma che cosa è l’antipolitica? La sua essenza sta nel rifiuto della mediazione politica, di quella attività che consiste nell’aggregare interessi diversi e eterogenei a sostegno di decisioni su problemi collettivi. Le manifestazioni dell’antipolitica variano in funzione dei contesti e delle tradizioni. I suoi nemici, ovviamente, sono i politici, i professionisti della mediazione, giudicati troppo corrotti o troppo inefficienti o entrambe le cose. Se l’enfasi è sulla corruzione, l’antipolitica si nutre di argomentazioni etiche. In Italia conosciamo questa variante dai tempi di Mani Pulite. Più interessante è l’antipolitica fondata su accuse di inefficienza, di incapacità di risolvere i problemi collettivi. Può presentarsi in due versioni. I politici possono essere giudicati inefficienti perché incompetenti. In questo caso l’antipolitica si aggrappa a soluzioni tecnocratiche. Gran parte della popolarità del governo Monti si spiega così. Per questa forma di antipolitica i problemi collettivi sono troppo complessi per lasciarli nelle mani di politici ignoranti. La complessità esige competenza tecnica. La stessa democrazia rappresentativa può essere percepita come un impiccio.
Nella seconda versione, i politici sono ancora una volta inefficienti ma non a causa della complessità. A causa del fatto che badano solo ai propri interessi. L’argomento della inefficienza si somma a quello della corruzione. Per questa forma di antipolitica i problemi collettivi sono semplici. Ogni uomo di buona volontà può risolverli. È l’argomento detto della «cuoca di Lenin». Lo sostengono tanti demagoghi in tutto il mondo.
La situazione italiana è esplosiva perché tutte le forme di antipolitica sono in questo momento presenti. È un brodo di coltura da cui può venir fuori qualunque cosa.
Date le nostre tradizioni, la politica contro cui ci si scaglia è la «politica partitica», non quella delle istituzioni: ciò spiega perché, mentre i partiti hanno pessima fama, il presidente della Repubblica in carica, che pure viene dall’esperienza partitica, gode di generale stima.
Ma sul ruolo dei partiti bisogna essere chiari. Perché la confusione è tanta (come mostra, ad esempio, un articolo di Alfredo Reichlin sull’Unità di sabato 14 aprile, che se la prende anche con questo giornale). Che i partiti siano necessari alla democrazia rappresentativa è un fatto indiscutibile. Non è invece indiscutibile che siano necessari i partiti come li abbiamo conosciuti in questo Paese. Dell’Italia repubblicana si è sempre detto che essa nacque sotto forma di «democrazia dei partiti». L’affermazione sarebbe stata pleonastica (in tutte le democrazie, infatti, ci sono i partiti) se non fosse per il particolare significato che ha sempre avuto quella espressione. Si riferisce al fatto che i partiti, in un’Italia iper-partigiana, hanno avuto per decenni un ruolo assorbente, totalizzante, in grado di dominare o controllare qualunque istanza si affacciasse alla vita pubblica. La si chiamasse «Repubblica dei partiti» (nella versione benevola) o «partitocrazia» (in quella malevola) la democrazia italiana si è caratterizzata per decenni come un luogo nel quale i partiti erano tutto e le istituzioni erano niente.
Le istituzioni, per prima la presidenza della Repubblica, cominciano ad acquistare un peso via via crescente (si pensi a Pertini e poi a Cossiga) solo in coincidenza con l’aggravarsi della crisi dei partiti della (cosiddetta) Prima Repubblica. Il grande problema dei partiti attuali, intorno al quale i loro gruppi dirigenti si sono avvitati accrescendo così il proprio discredito, è che essi non hanno più quei fortissimi legami che hanno avuto per decenni con segmenti importanti della società e che consentivano loro di fare il bello e il cattivo tempo, ma non sono stati in grado di accettarlo e di ridisegnare la propria mission, la propria «ragione sociale». Non è vero che in una democrazia i partiti debbano essere per forza ciò che erano nell’Italia dei primi quaranta anni di storia repubblicana e che l’alternativa sarebbe la scomparsa dei partiti. Coloro che dalla crisi delle formazioni personali o carismatiche, da Berlusconi a Bossi, traggono ispirazione per sostenere che bisogna tornare ai partiti di un tempo, non solo fanno un sogno impossibile (quei legami fra partiti e società non sono ricostituibili perché è cambiata la società italiana). Fanno anche danni, si aggrappano a terapie sbagliate, alimentano l’antipolitica. La vicenda dei rimborsi elettorali (che rimborsi non sono affatto) è emblematica. Solo gruppi dirigenti che immaginavano di poter operare con la stessa arroganza del tempo che fu potevano concepire, di comune accordo, un simile sistema. L’antipolitica può essere contenuta solo se i partiti accettano di essere altro da ciò che sono stati, accettano di essere, come sono nelle democrazie meglio funzionanti, solo organizzazioni specializzate nella raccolta del consenso elettorale e nella fornitura di personale per cariche di governo, senza più la pretesa di dominare le istituzioni. Il che richiede il contestuale rafforzamento dell’autonomia e dei poteri decisionali attribuiti alle istituzioni di governo. Compito dei partiti non è di essere, gramscianamente, i «principi». È di essere, più modestamente, gli sherpa, le strutture di supporto di coloro che si sfidano sul piano elettorale allo scopo di diventare, essi sì (ma con mandato a termine), i principi. Che altro sono i partiti in Francia o in Gran Bretagna? Si guardi alla esperienza di maggior successo degli ultimi venti anni, quella dei sindaci. Non tutte le ciambelle riescono col buco, naturalmente, ma è un fatto che spesso lo scontro frontale fra candidati sindaci, e la vittoria di uno di loro, rivitalizzano il rapporto politica-società, e danno anche ai partiti un ruolo che non avrebbero se non fossero stati il supporto del candidato vincente. Se si vuole sconfiggere l’antipolitica (nei suoi aspetti minacciosi per la democrazia) occorre che i partiti si rassegnino a un ruolo assai più modesto che in passato. Solo così i cavoli dei partiti e la capra della democrazia potranno essere salvati.

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