Shoah: una lezione universale

25 Gen 2012

Lo storico Sergio Luzzatto ricorda per LeG l’anniversario della liberazione di Auschwitz, 27 gennaio 1945, ripercorrendo la polemica sulla chiusura del padiglione italiano. Luzzatto sostiene quanto Levi non si è stancato di scrivere “la terribile lezione della Shoah è infatti una lezione universale: di là dai carnefici nazisti e dalle vittime ebree, riguarda gli uomini in quanto tali, il genere umano”

Anche quest’anno, il Giorno della Memoria vive di un suo equilibrio delicato: si muove vertiginosamente sul filo di una risorsa che è anche un limite, di un’opportunità che è anche un problema.

Come negare che il Giorno della Memoria corrisponda a una risorsa, che rappresenti un’opportunità? Dalla sua istituzione (nel 2000) a oggi, l’appuntamento con l’anniversario della liberazione di Auschwitz, 27 gennaio 1945, ha saputo affermarsi nella vita pubblica italiana come una delle rare istanze in cui il passato novecentesco entra in risonanza con il presente. E più che mai nelle nostre scuole, dove insegnanti motivati trovano ogni anno maniere nuove per coinvolgere – attraverso un lavoro sulla Soluzione finale – ragazzi ai quali la storia parla altrimenti sempre meno: ragazzi altrimenti estranei (sempre più estranei) al vecchio motto secondo cui la storia sarebbe maestra di vita.

D’altra parte, come negare che il Giorno della Memoria corrisponda a un limite, che rappresenti un problema? Nella misura in cui si fonda sulla logica (oltreché sulla retorica) del “dovere della memoria”, l’istituzionalizzazione del ricordo della Shoah partecipa infatti di un insieme di normative, italiane ed europee, che vengono oggi definite “leggi memoriali”. Leggi approvate magari con le migliori intenzioni, ma che sollevano la questione inaggirabile dell’assurdità – e dei rischi – di voler normare il presente attraverso imperativi sul passato.

La crisi politica e diplomatica che proprio in questi giorni sta opponendo la Francia alla Turchia, intorno alla decisione del Parlamento francese di perseguire chi nega la qualità di genocidio al massacro degli armeni, basta da sola a evidenziare i rischi di qualunque legislazione memoriale che voglia imporre lo “storicamente corretto” a colpi di codice penale. In realtà, la memoria della storia non è mai un dovere. Tanto più se applicata a un genocidio – degli ebrei nella Shoah, o degli armeni nel 1915, o dei tutsi nel Ruanda del 1994 – la memoria è un lavoro, è un travaglio, è una pena.

Nell’Italia di quest’anno, poi, il Giorno della Memoria vive di un equilibrio reso ancora più fragile da una congiuntura che ci viene da fuori: dall’estero, e direttamente da Auschwitz. Ormai da qualche mese il cosiddetto padiglione italiano del campo di sterminio in Polonia, il Memorial voluto dall’Associazione nazionale ex deportati (Aned) negli anni Settanta e costruito con il contributo decisivo di Primo Levi, quel padiglione è stato chiuso al pubblico – per ordine della direzione del Museo – in quanto non più rispondente ai criteri espositivi del Museo stesso. In pratica, i polacchi contestano al padiglione italiano una qualità artistica più che didattica, e monumentale più che memoriale.

La decisione del Museo di Auschwitz era nell’aria da tempo. Ma qualunque possibile risposta dell’Aned (e/o del governo italiano) deve misurarsi oggi con differenze di sensibilità e con divergenze di opinione interne agli ambienti stessi della memoria della deportazione e della Shoah in Italia. Sul destino del padiglione di Auschwitz, l’Aned e l’Unione delle comunità ebraiche italiane si confrontano da anni, e talvolta di scontrano; né l’apertura del dibattito agli studiosi di storia e di storia dell’arte è bastata a promuovere un’intesa.

Se le autorità polacche hanno potuto usare all’Italia quello che è quasi un affronto – la chiusura del padiglione italiano – ciò si deve alla difficoltà di mettere d’accordo una memoria “politica” e una memoria “etnica” della seconda guerra mondiale. Il Memorial di Auschwitz voluto dall’Aned e da Primo Levi enfatizzava la dimensione politica della deportazione, il sacrificio degli antifascisti, mentre passava quasi sotto silenzio lo specifico ebraico del campo di sterminio. Da qui la volontà degli israeliti italiani (d’accordo, loro, con le autorità polacche) di rimpiazzare il Memorial degli anni Settanta con una proposta espositiva più intonata alla sensibilità odierna, che riconosce negli ebrei – evidentemente – le vittime prime del programma eliminazionista.

Tuttavia, ridurre Auschwitz entro i confini (per quanto immani) della tragedia ebraica non sarebbe necessariamente il migliore dei risultati. Come Levi non si è stancato di scrivere, la terribile lezione della Shoah è infatti una lezione universale: di là dai carnefici nazisti e dalle vittime ebree, riguarda gli uomini in quanto tali, il genere umano. In tal senso, l’attuale impasse intorno al destino del padiglione italiano di Auschwitz riflette un problema generale, che si potrebbe definire come la necessità di pensare non etnicamente il Giorno della Memoria.

C’è un altro modo – più figurato – per esprimere quest’ultimo concetto: ricordando come Primo Levi abbia scritto Se questo è un uomo, non Se questo è un ebreo.

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