I costituzionalisti

04 Gen 2012

L’intervento di Gustavo Zagrebelsky nel corso del convegno dell’AIC (Associazione dei Costituzionalisti) svoltosi nell’ottobre 2011 a Torino. Tema il contributo della scienza costituzionale allo svolgersi delle vicende costituzionali del nostro Paese, a 150 anni dall’unificazione politica nazionale

 

Sommario: 1. La scienza della costituzione: una scienza pratica – 2. Convergenza e divergenza sulla costituzione – 3. Costituzionalisti nella diaspora? – 4. Indecisioni costituzionali – 5. Due modi d’essere – 6. Allettamenti – 7. Cenni in conclusione.

L’incontro della Associazione italiana dei costituzionalisti che si è svolto a Torino nel mese di ottobre del 2011 ha  avuto a tema il contributo della scienza costituzionale allo svolgersi delle vicende costituzionali del nostro Paese, a 150 anni dall’unificazione politica nazionale. Al termine, è apparso naturale rivolgere l’attenzione ad alcune questioni che riguardano il momento attuale. La domanda che, in fondo, riassume tutte le altre, è se vi sia oggi un compito comune (e quale sia) che “i costituzionalisti” riconoscono come proprio.

1.(La scienza della costituzione: una scienza pratica) La prima questione riguarda immediatamente l’espressione “i costituzionalisti”. Esistono “i costituzionalisti” come categoria di persone che esercitano una professione intellettuale che ha come oggetto la costituzione? Oppure esistono soltanto numerosi, singoli individui, vincitori d’un concorso in quella materia, ognuno per conto proprio, non unificati spiritualmente da un compito comune? Naturalmente, bisogna trattare con cautela questi interrogativi. Rifiutiamo senza tentennamenti, d’essere e d’essere considerati una corporazione. L’attività intellettuale e la libertà che, secondo il modo odierno di considerare la cosa, le è propria, rifiutano l’inquadramento in strutture sociali organiche. Ma, da qui a concludere che dunque ognuno è e deve essere in sé e per sé con i suoi pensieri, le sue idee, i suoi studi, e che non c’è nulla di comune che debba essere ricercato per dare un senso sociale alla nostra professione, il passo è troppo lungo.

Possiamo prendere lo spunto da una proposizione formulata, a imitazione di quella che sta nell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, da Carl Schmitt nel 1936: “un popolo che non ha un ceto (Stand) di giuristi, non ha alcuna costituzione”(1). Ho detto: “prendere lo spunto”. Non più di questo. Nel contesto di quel periodo della storia politica, la formula portava in sé molti veleni. Si trattava di costruire una giurisprudenza “ariana”, affrancata dalle idee costituzionali liberal-democratiche e affidata a un corpo di giuristi inquadrati nell’ideologia nazionalsocialista. Tutto questo ha da essere buttato via, tra i rifiuti delle esperienze totalitarie. Ma resta qualcosa di vero, di essenziale; qualcosa che viene alla luce quando il pubblico profano, per esempio attraverso gli organi d’informazione, di fronte a un problema di diritto costituzionale controverso, si rivolge “ai costituzionalisti” per avere una risposta o, almeno, un orientamento.

Il presupposto implicito in quest’atteggiamento d’attesa nei nostri confronti è che ci sia qualcosa che, al di là delle differenze che nascono dalla libertà del pensiero, unifica il senso del nostro essere costituzionalisti, cioè il senso dell’esercizio d’una professione intellettuale che non ha come oggetto una “materia” qualunque, ma quella materia che è la costituzione. Per questa ragione – la peculiarità dell’oggetto: la costituzione, per l’appunto – la discussione circa la posizione dei costituzionalisti non si confonde con quella di chi opera in altri ambiti intellettuali, con riguardo all’orientamento della libertà dal potere, in tutte le sue forme, che connota sia gli uni che gli altri.

Non è la stessa cosa essere “i costituzionalisti”, piuttosto che “gli economisti” o “gli storici” o, ad esempio, “i filosofi morali”. Infatti, non risulta – o. almeno a me non risulta – che a questi ci si rivolga con la medesima aspettativa con la quale ci si rivolge a “i costituzionalisti”. Gli studi costituzionali ruotano su un perno comune che è la costituzione e la costituzione è un dato storicamente determinato o storicamente da determinare, come compito precipuo della scienza costituzionale. Non così, per rimanere agli esempi di prima, “la scienza economica”, “la storiografia”, “la filosofia”, eccetera. La scienza economica non esiste se non come le tante teorie e dottrine circa la natura dell’essere umano rispetto ai fatti economici e circa le “leggi” che da questa presunta natura si fanno derivare; idem per la storiografia o per la filosofia, condizionate, nel rispetto dei dati di fatto, dall’assunzione a priori di determinate visioni delle forze che muovono il mondo e l’azione umana nel mondo, e quindi di determinate categorie interpretative. Si dirà: ma non è la stessa cosa per la scienza della costituzione? Non vale forse ciò che è stato espresso con le parole: “Ciò che è davvero fondamentale” – cioè costituzionale nel senso più profondo – “non può mai essere posto, ma deve sempre essere presupposto”? Non è la scienza dei costituzionalisti, a sua volta, condizionata da una selva di assunzioni a priori pre-positive, metafisicamente o storicisticamente determinate, che la rendono, nel suo insieme, polifonica se non talora cacofonica?  Se i costituzionalisti si interrogassero su questo punto, dovrebbero registrare risposte diverse. Sotto questo aspetto, “i costituzionalisti” non si distinguono da “gli economisti”, da “gli storici”, eccetera.

Si distinguono invece sotto un altro aspetto, il loro compito, il compito che deriva dalla costituzione. La scienza del diritto costituzionale appartiene certamente al novero delle scienze pratiche, non solo nel senso di scienze che servono alla pratica, ma nel senso aristotelico di scienze che, sviluppandosi, vanno costruendo il loro oggetto: un oggetto che non è dunque indipendente dalla riflessione scientifica che li riguarda. Sotto questo aspetto, di nuovo, la scienza del diritto, e del diritto costituzionale in particolare, non si distingue dall’economia, dalla storiografia, dalla filosofia morale.

Se ne distingue invece per la natura del suo compito: la costituzione deve costituire e, così, anche la scienza che si occupa di essa. I discorsi che riguardano la costituzione che creano dispersione o, comunque sia, che non mirano primariamente a “costituire” una scienza costituzionale che possa sorreggere una costituzione, non sono discorsi costituzionali. Possono essere discorsi politici o di politica costituzionale; possono essere memorie di parte in procedure costituzionali; possono essere pareri forniti agli attori della lotta politica, quando questa si avvale di argomenti costituzionali; possono perfino essere attentati alla costituzione. Ma non sono diritto costituzionale, in quanto sono indipendenti o addirittura contrari al compito della costituzione.

Lo comprendiamo facilmente. Una scienza costituzionale che non mira a un orientamento di fondo comune ma si dissolve in tante parti in lotta tra di loro, distrugge innanzitutto se stessa, in quanto contraddice il suo compito d’essere costituzionale, e così si rende, nel suo insieme, impotente, inutile, o utile solo come repertorio d’argomenti polemici strumentali, in mano d’altri. In secondo luogo, fa a brandelli la costituzione stessa, quale unitario punto focale della vita politica e sociale comune. Sotto questo secondo aspetto, la frase di Schmitt è pienamente giustificata: una scienza della costituzione divisa, conflittuale, in disaccordo sui fondamenti, non è solo nulla, è anche distruttiva del suo oggetto. Tradisce il suo compito pratico. Quella frase fu scritta avendo alle spalle la frammentazione politica (molto feconda d’idee, certo, ma non per questo meno disgregatrice) della scienza della costituzione  del tempo della crisi della Repubblica; e avendo davanti l’intento di ricomporne l’unità al servizio del potere totalitario. Unità al prezzo della libertà: un modo per liquidare la funzione della scienza giuridica della  costituzione in quanto scienza, e ridurla a prestazione di servizio.

2.(Convergenza e divergenza sulla costituzione) Il compito che attende i giuristi della costituzione in una società libera, in una democrazia costituzionale, pare dunque possa condensarsi così: perseguire, come “società aperta degli interpreti” – per usare la celebre espressione di Peter Haeberle (2) che allude, ma rovesciandone il senso, alla formula di Schmitt (lo Stand dei giuristi), citata all’inizio – una libertà convergente; una libera convergenza nei nostri orientamenti fondamentali. In assenza – ripeto – non ci sono “i costituzionalisti”, ma tanti costituzionalisti che non fanno ma disfanno la costituzione per i più diversi interessi, magari con l’interesse di farne un’altra. Dunque, in assenza, non c’è costituzione. E d’altra parte, se non ci sono “i costituzionalisti”, non c’è nemmeno una scienza costituzionale. Infatti, una scienza pratica  come quella costituzionale, indecisa rispetto ai suoi fini, non solo non è pratica, ma non è nemmeno scienza. È l’insieme d’altre cose, magari nobilissime e giustificatissime, ma diverse.

3. (Costituzionalisti nella diaspora?) Le considerazioni che precedono servono semplicemente a introdurre la riflessione che quest’occasione celebrativa della storia nazionale invita a fare su noi stessi, come giuristi della costituzione. In breve, possiamo fregiarci del titolo di “i costituzionalisti”, nel senso che dicevo prima e nel senso che mi pare giustifichi questa stessa nostra Associazione che ci riunisce una volta all’anno?

Possiamo comprendere la pregnanza di questa domanda specificandola e contestualizzandola in relazione al momento costituzionale che stiamo vivendo. Poniamo la domanda nella maniera più distaccata possibile, osservando, senza valutarlo, un dato di fatto: la vita della costituzione del 1947 è segnata da una grande frattura, la frattura che ha iniziato a prodursi, e si è via via allargata, alla fine degli ’70 del secolo scorso quando, per iniziativa del segretario del Partito socialista d’allora, fu lanciata la parola d’ordine della riforma della Costituzione, anzi: della “grande riforma”. Ricordiamo. Questa espressione e il suo concetto sono entrati nell’aria che respirano i costituzionalisti. Perfino il Presidente della Repubblica di quegli anni diede il suo contributo, se non a realizzare la riforma, certo a diffonderla come ideologia costituzionale del nostro tempo (esplicito, il Messaggio alle Camere del 26 giugno 1991, in limine alla scadenza del suo mandato). Non solo: diversi, singoli costituzionalisti sono stati tra i protagonisti di questa vera e propria svolta (3).

In che senso si deve parlare di svolta? Fino ad allora – ricordiamo anche questo – tra di noi era vietato mettere in discussione la Costituzione, tutt’intera o nelle sue parti. Si era tacciati d’ingenua “ingegneria costituzionale”, un’accusa che sottintendeva anche una precisa scala di valori: la dinamica politica sotto le forme istituzionali, non le forme istituzionali sotto la dinamica politica. D’altra parte, si temeva di aprire la strada a ciò che si denominava spregiativamente “l’uso congiunturale delle istituzioni” – ricordiamo anche questo, ora che la formula è caduta in desuetudine, forse perché non distingue più nulla, tutto o quasi essendo diventato “congiunturale”. Ebbene, proprio allora fu lanciata quella che, col senno di poi, si potrebbe chiamare una bomba a scoppio ritardato nella casa de “i costituzionalisti”. La Costituzione ha iniziato a essere il terreno e, al tempo stesso il mezzo di quell’uso congiunturale che, fino ad allora, si era considerato un abuso costituzionale. Fu detto esplicitamente: l’elezione diretta del capo dell’esecutivo – il cuore della “grande riforma” – doveva servire a rovesciare i rapporti di forza tra i due maggiori partiti della sinistra d’allora, il PCI e il PSI, a favore di quest’ultimo. Tanto è vero che, dopo il 1989, si preferì, per pure ragioni politiche e non costituzionali, “contare più sulla definitiva disfatta dell’ex-PCI che non sulla prospettiva di assumere noi [il PSI] la guida della sinistra”. Il tema della riforma prese poi altri significati, ma questo fu l’inizio, l’arché, che, come tutti gli inizi avrebbe influenzato il seguito.

Il seguito è stata la diaspora in tutti i territori della politica, intesa innanzitutto come “concezioni della politica”. “I costituzionalisti”, nel senso di studiosi della costituzione liberamente impegnati nel compito comune di alimentare con la loro riflessione la Costituzione esistente, hanno cessato di esistere. Il diavolo – nel senso letterale di divisore, seminatore di zizzania – si è insinuato nel loro ambiente. Si sono moltiplicati a dismisura i convegni, le tavole rotonde, le commissioni, i volumi collettanei, i siti informatici – per fortuna, non le associazioni – in materia costituzionale, per la riforma della costituzione: ma questa moltiplicazione non è affatto un segno di vitalità. È piuttosto un segno della nostra decadenza, come depositari della scienza della Costituzione.

La divisione è entrata tra di noi, non sui dettagli ma sui fondamenti. Una volta accettata la sfida che coinvolgeva la legittimità, o se si preferisce, meno drammaticamente, l’adeguatezza della Costituzione ad essere – come s’è detto con un’espressione alla moda – la “narrazione credibile della società italiana” (4), tutto diventava possibile: i progetti, i propositi, le ambizioni particolari, hanno preso il sopravvento e non hanno prodotto altro che divisioni in forma di “narrazioni”; certamente non hanno prodotto una nuova concezione di quella “cosa” che chiamiamo costituzione e che, fino ad allora aveva unificato nel fine – il fine di farla vivere – le strade battute dai costituzionalisti nei loro studi e nella loro attività pratica. Abbiamo cessato di pensarla – non noi singolarmente o pro partibus, ma noi come insieme – al di sopra di noi e, in vario modo e per diversi fini, l’abbiamo posta sotto di noi.

4.(Indecisioni costituzionali) Eccessivo? Vediamo, sia pure solo per accenni, alcune di quelle che si potrebbero chiamare le “indecisioni costituzionali” del nostro momento: quelle che rendono almeno doppi i nostri discorsi, cioè tali che a uno, se ne può contrapporre un altro, diverso e spesso opposto, onde, per esempio, i grandi giornali che fanno opinione e, più spesso, registrano il senso comune, usano ormai interpellare “i costituzionalisti” sulle questioni controverse e le loro idee sono registrate su due colonne: chi dice bianco, da un parte, e chi dice nero, dall’altra (e magari, in una terza, chi, per non sbagliare, dice grigio e non prende posizione, in realtà prendendola in definitiva a favore di quella che, nelle sedi del potere, pesa di più). Ecco un elenco, solo esemplificativo.

(a)La Costituzione sulla quale lavoriamo e che interpretiamo è un disegno generale e duraturo della vita civile e politica, appartenente al grande flusso del costituzionalismo contemporaneo e dunque relativamente indipendente dalle vicende storiche concrete da cui è nata o, al contrario, è il prodotto d’un insieme di compromessi particolari e contingenti tra forze politiche che ormai non esistono più, le quali hanno operato in un’epoca che ha poco o nulla a che vedere con la nostra? Ci sono dunque, o non ci sono, aspettative di futuro che possano essere riposte nella Costituzione vigente? E, se sì, quali sono?
(b)Ancora prima, qual è lo “stato della memoria” circa il mito fondativo della Repubblica, quella forza ideale senza la quale nessuna Costituzione può valere di generazione in generazione, saldandole nella continuità d’una esperienza storica: cioè, che idea abbiamo delle vicende che, dalla caduta del fascismo, attraverso la prosecuzione della guerra all’interno del nostro Paese, quindi la Resistenza, hanno portato alla Costituente e alla Costituzione? Il revisionismo storico opera anche tra di noi, quantomeno nel senso della rimozione del significato di quel “roveto ardente” in cui si mossero i nostri “padri costituenti”, secondo l’espressione dossettiana richiamata da Umberto Allegretti, nella sua “relazione” in apertura del convegno dei costituzionalisti menzionato all’inizio di questo scritto?
(c)La Costituzione è un documento che esprime una rottura nella nostra esperienza costituzionale, oppure si inserisce solo ideologicamente nella continuità, non esprimendo una vera e propria forza rigeneratrice rispetto al passato e non aprendo affatto una nuova epoca costituzionale? In altri termini, come dobbiamo considerare il valore della Costituzione nell’arco della nostra esperienza unitaria e nello svolgersi delle sue diverse fasi, fino a quella immediatamente precedente la Repubblica?
(d)Su questa seconda linea, il pluralismo dei partiti, rispetto al partito unico del fascismo, è un’innovazione circa il modo di concepire l’esperienza politica in democrazia, oppure è semplicemente la prosecuzione nella continuità dell’occupazione partitocratica delle istituzioni, dove all’uno si sono sostituiti i più, ma senza mutamento di sostanza?
(e)Il sistema parlamentare imperniato sui partiti politici esprime un’idea ancora valida di politica partecipativa e discorsiva, cui è collegata intimamente la rappresentanza proporzionale, oppure l’idea del futuro è la cosiddetta democrazia decidente, imperniata sulla competizione a due, collegata alla rappresentanza maggioritaria e ai premi di maggioranza? La democrazia che abbiamo in mente è quella del compromesso kelseniano o quella dell’affermazione del capo politico?
(f)Legata a quest’alternativa è la risposta alla domanda circa la perduranza della “distinzione costituzionale”, cioè della differenza tra ciò che è e ciò che deve essere in materia costituzionale. Il fatto compiuto è da noi assunto come fatto normativo, dal quale è lecito trarre tutte le conseguenze che ne possono derivare? In altri termini, la Costituzione, intesa normativamente, è ancora quella o è cambiata nella sostanza, anche se non è cambiata nella forma? In concreto: i mutamenti della formula elettorale sono da intendere ancora entro lo schema della democrazia parlamentare, oppure dobbiamo assumerli come elementi d’un modello di democrazia che non è più quella voluta dai Costituenti?
(g)La Costituzione è un progetto di società o, almeno, la traccia d’un percorso orientato a un’idea di società possibile e desiderabile (secondo l’affermazione moderata di Massimo Luciani, nel suo contributo ai lavori del Convegno dei costituzionalisti) oppure è solo una carta di diritti individuali intesi come armi, armature, per una competizione senza scopo, dove il successo si identifica con l’affermazione degli interessi dei più forti?
(h)Da ciò discendono decisioni diverse circa il modo di concepire il fondamento ultimo della Costituzione: la libertà. Libertà o liberazione? Dalla risposta dipendono la valorizzazione o la sordina, circa parti intere della Costituzione, dall’art. 1, nel quale qualcuno vorrebbe sostituire il lavoro con la libertà di concorrenza, all’art. 3, soprattutto nel secondo comma, all’art. 4 circa il lavoro come diritto e non come conseguenza di fatti economici, all’art. 53, nella parte relativa alla progressività del sistema fiscale, e in generale, a tutte le norme costituzionali di principio, riguardanti i diritti sociali.
(i)Su questo ultimo punto, si è riproposta di recente una questione che sembrava ormai sepolta nella nostra archeologia costituzionale, circa l’efficacia normativa e l’applicabilità diretta di tali norme nella concretezza delle relazioni sociali. Si è riproposta la categoria delle norme programmatiche e, su questa base, si è sollevato conflitto da parte delle Camere nei confronti della Corte di cassazione, nella vicenda che porta il nome di Eluana Englaro. I costituzionalisti sono stati concordi nel considerare l’efficacia dei principi costituzionali in quella drammatica vicenda?
(j)Quest’ultima ha posto in luce un’altra divergenza tra di noi: questa volta sul giudizio circa il ruolo della giurisdizione nei rapporti della politica e della legislazione: esorbitanza patologica di potere o inevitabile, e quindi fisiologica, assunzione del ruolo che, nello Stato costituzionale, le Corti sono chiamate a svolgere nel momento in cui “dicono il diritto”.
(k)Al vertice della scala delle indecisioni, c’è addirittura il dubbio sulla natura del diritto. Il diritto è solo legge, cioè potere rivestito della forma legislativa (ordinaria o costituzionale, non importa), oppure il diritto è sintesi di legge e qualche cosa che legge, nel senso anzidetto, non è. È la questione della doppia anima del diritto che, nell’art. 20, al. 3 della Costituzione tedesca e nell’art. 103 della Costituzione spagnola, emerge dicendovi  che le autorità pubbliche (amministrative e giurisdizionali) sono soggette “alla legge e al diritto”. Da noi, non troviamo una simile traccia testuale della questione, nella nostra Carta, ma si tratta di una questione che va al di là delle formule esplicite, derivando dalla stessa natura dello Stato costituzionale o, almeno, dalle concezioni che se abbiano.
(l)Infine, al sommo delle nostre indecisioni, sta l’adesione o il rigetto di quell’orientamento costituzionale (niente di più di un orientamento del pensiero) che va sotto il nome di neo-costituzionalismo, al quale si contrappone un perdurante positivismo della costituzione, come atteggiamento metodologico (magari attenuato o addolcito parlando di “positivismo [ben] temperato”, secondo l’espressione di Alessandro Pace (5). Una questione che, implicandone molte altre riguardanti innanzitutto la concezione della costituzione, qui può qui essere soltanto accennata.

Se queste divaricazioni esistono e devono perciò essere puntualizzate e sottolineate, non è, ovviamente, per marcare soltanto i termini di un conflitto. È – sia chiaro – per segnalare quanto profonda e diffusa è la necessità della ricomposizione, secondo la vocazione della scienza del diritto costituzionale.

5.(Due modi d’essere) Fin qui si è trattato, per così dire, della diaspora ideale dei costituzionalisti. Ma ci può essere anche una diaspora, anche qui per dir così, professionale, resa possibile, anzi autorizzata se non alimentata, dalla diaspora ideale.

Possiamo utilizzare, per orientarci, una distinzione tratta dalla riflessione circa la posizione sociale di quanti esercitano una professione intellettuale, una riflessione che viene da Antonio Gramsci. Nella sua profonda meditazione sul ruolo sociale degli “intellettuali”, egli ha distinto due loro modi di essere, di essere considerati e di auto-considerarsi: gli intellettuali come gruppo sociale autonomo e indipendente, oppure come gruppo sociale specializzato, per così dire, “di complemento” rispetto a chi esercita potere nell’economia e nella politica6. In altri e più brutali termini: gli intellettuali vivono della propria professione e in essa trovano la ragione della propria esistenza, oppure sono parassiti, non necessariamente inutili, ma utili ad altri gruppi sociali, alle spalle dei quali vivono, fornendo loro servigi ideologici, cioè dando forma ideale ai loro interessi materiali? Arredo o, se si vuole, corredo del potere.

L’alternativa è strettamente connessa a quella della “missione” di chi esercita una professione intellettuale, alla quale ha accennato Mario Dogliani, in apertura dell’incontro menzionato all’inizio di questo scritto. Gramsci aggiungeva saggiamente che il problema è complesso, a causa delle varie forme che ha assunto finora il processo storico reale di formazione delle diverse categorie intellettuali, nel rapporto con gli altri gruppi, detentori d’altro tipo di potere sociale. Io aggiungerei, a mia volta, che la difficoltà di procedere per connotazioni generali e nette è accresciuta dalla fluidità e della pervasività di un mondo, come quello intellettuale, che non trovano l’equivalente in altri campi dell’attività umana.

Noi possiamo stabilire due estremi: la produzione d’idee che ha come padrone e fine primario il pensare, e la produzione d’idee che ha altri padroni e come fine primario l’agire. Tra questi due poli, l’improduttiva, libera futilità intellettualistica e il servilismo corruttivo del libero pensiero, esistono molte situazioni. Estremizzando, si può dire che, se siamo liberi, siamo superflui; se siamo utili, non siamo liberi. Queste tendenze, per ragioni diverse, anzi opposte, hanno in comune l’incapacità della funzione intellettuale, in quanto tale, di svolgere una funzione sociale costruttiva e la condannano all’irrilevanza e, alla fine al disprezzo. Nell’insieme, coloro che si dedicano ad attività intellettuali risultano polverizzati, inconcludenti.

Per quanto ci riguarda come costituzionalisti, proporrei di riflettere sul pericolo che, proprio anche a causa della dispersione sui fondamenti intellettuali della nostra professione, corriamo. La nostra funzione rischia di disperdersi in mille rivoli. La dispersione deriva dall’incapacità di definire i nodi fondamentali del nostro impegno intellettuale e su questi di concentrare le nostre forze. Per questo, la libertà e l’indipendenza che noi giustamente rivendichiamo come nostra prerogativa non si traducono in qualità di una funzione d’insieme d’una comunità consapevole di un compito comune, ma si risolvono in una pretesa di status che non è facile giustificare. Da qui, la facile ironia sulla prosopopea degli intellettuali, sulla loro vuota spocchia e, alla fine, sulla loro inutilità, sul loro parassitismo: il tutto concentrato nella parola che abbiamo udito pronunciare di nuovo di recente, culturame.

In questa condizione dispersa, o ci si rifugia nella pura speculazione fine a se stessa, cioè nella fuga dalla realtà, in una sorta di consolazione del pensiero, oppure, rinunciando all’autonomia, si cerca di collegarsi in qualche modo con chi sta dove il potere si esercita effettivamente, nell’economia e nella politica, per diventarne “consulenti”. In due parole: si corre il rischio che il “consulente” sostituisca “l’intellettuale”. Il nostro mondo è sempre più ricco di consulenti e sempre meno di intellettuali. C’è persino da ridere, se si pensa che questa – del consulente – è la versione odierna dell’ “intellettuale organico” gramsciano. Questo si collegava alle grandi forze storiche della società per la conquista della “egemonia” e per svolgere così un compito certo ambiguo, ma indubbiamente grandioso; quello è l’imboscato nell’inesauribile foresta di ministeri, enti, istituti, fondazioni, aziende, ecc., il quale si lega al piccolo o grande potente, offrendo i suoi servigi intellettuali e ricevendo in cambio protezione, favori, emolumenti. Costoro si conoscono tutti “personalmente”, ma s’ignorano “funzionalmente”. Nell’insieme non adempiono la funzione intellettuale che la società assegna loro e risultano paralizzati, anche quando si tratterebbe di prendere posizione, non come singoli che non contano niente, ma come insieme, titolari d’una scienza che dovrebbe contare molto.

6. (Allettamenti) Si dirà: che male c’è se, chi comanda, nelle attività politiche e in quelle economiche, sia informato e anche illuminato da qualcuno che conosce le cose di cui parla? Nulla di male, naturalmente, ma a condizione che il consulente, per così dire, non entri “nell’organico” del potente di turno. Il confine è teoricamente chiaro, praticamente vago. In un caso mantieni la tua libertà, nell’altro la perdi: volontariamente la perdi, ma la perdi. C’è l’attesa, la speranza di ottenere qualcosa, e allora rispondi agli inviti; ai convegni non puoi mancare, perché se manchi, sembra che tu “non ci stia”. Allora perdi il tuo tempo e disperdi la tua vita  in convegni pseudo-culturali perché “non si sa mai”, che qualcosa di buono ti possa prima o poi arrivare: i posti a disposizione di chi li può distribuire sono tanti e allora ci può essere anche posto per te. Ma devi farti vedere, essere disponibile, fare corona. Il punto più basso, l’intellettuale lo raggiunge quando si presta a dare il suo cervello, la sua intelligenza, la sua parola, all’uomo di potere che lo paga per scrivergli i suoi discorsi, i suoi articoli di giornale, le sue interviste. Addirittura, ne abbiamo fatto una delle possibili professioni intellettuali, quella del ghostwriter. Ci pare normale che colui che scrive i discorsi che altri pronunceranno come propri, cioè che collabora – magari ad altissimo livello, come nel caso sempre citato di Arthur Schlesinger jr. per Adlai Stevenson e i fratelli Kennedy – a un evidente plagio letterario, sia circondato dal massimo rispetto, ed egli stesso se ne compiaccia: come sono bravo, sono entrato in Tizio e Caio per far uscire dalla sua bocca le mie parole! Le tue parole, allora, assumono una potenza che tu non ti sogneresti nemmeno. Ti sembra allora di svolgere al meglio, con la massima efficacia, la tua professione intellettuale, salendo sulle spalle del potente.

Noam Chomsky ha fatto osservazioni sulle esibizioni pubbliche di politici-attori che dovrebbero essere tenute presenti, come salutari avvertenze per l’uso, nell’ascolto delle loro parole: “quando in televisione si legge un “gobbo” si fa una curiosa esperienza: è come se le parole vi entrassero negli occhi e vi uscissero dalla bocca, senza passare attraverso il cervello. E quando Reagan fa questo, quelli della TV devono disporre le cose in modo che di fronte a lui ci siano due o anche tre gobbi; in tal modo la sua faccia seguita a muoversi rivolgendosi da una parte e dall’altra, e allo spettatore sembra che stia guardando il pubblico, mentre invece passa da un gobbo all’altro. Ebbene, se riuscite a indurre la gente a votare per persone di questo tipo, praticamente avrete fatto il vostro gioco; l’avrete esclusa da ogni decisione politica. E bisogna fingere che nessuno rida. Se ci riuscite, avrete fatta molta strada verso l’emarginazione politica del popolo”.

Questo, o questo genere di servizi non è solo contro ciò che la nostra professione richiede, ma è anche contro la democrazia: è un servizio, alla fine, di natura servile, di quelli che esistono nelle autocrazie. In democrazia, i potenti, se non hanno nulla da dire, frutto del loro ingegno, è meglio che tacciano. E, se tacendo non si fa carriera politica, è meglio che non la facciano. Se poi dal loro ingegno escono sciocchezze, è bene che i cittadini le constatino per quello che sono. Oltretutto, in questo modo, coprendo il vuoto di cultura dei politici con le loro non disinteressate “consulenze”, contribuiscono a svuotare la politica, fornendo coperture di parole, idee, immagini all’esercizio alla conquista, all’accrescimento e alla conservazione del puro potere, cioè del potere per il potere.

7. (Cenni in conclusione) Il discorso condotto fin qui contiene implicite indicazioni sul “dover essere” di noi costituzionalisti. Il che, naturalmente, ha un sapore fastidioso. Onde, in questi casi, si usa dire di non voler dare consigli a nessuno, il che vuol dire, invece, che li si vuol dare. L’autorizzazione a proseguire per questa strada viene da fatto di sentirsi anche personalmente e direttamente coinvolti.

Innanzitutto, non “portare in giro” la propria esistenza. Traggo questa espressione dall’Autore di Itaca, Konstantinos Kavafis, in “Per quanto sta in te” (7): “E se non puoi la vita che desideri, … [almeno] non sciuparla portandola in giro in balia del quotidiano gioco balordo degli incontri e degli inviti, fino a farne una stucchevole estranea”. Non “portare in giro” vuol dire, innanzitutto, concentrazione su ciò che ci appare essenziale. La funzione di consulenza dei potenti ha invece bisogno che si vada in giro, là dove ti portano gli altrui interessi della cui assistenza ti sei assunto il compito.  In questo momento, in cui ogni centro sembra scomparso, questo andar in giro significa disperdere la propria esistenza.

Inoltre, chi è l’intellettuale che “porta in giro” la propria esistenza? È l’uomo, come si dice, per tutte le stagioni. La coerenza della ricerca intellettuale e dei suoi percorsi – ciò che si denomina normalmente “onestà intellettuale” – è condizione essenziale d’integrità, dunque di credibilità e, alla fine, d’efficacia della propria funzione: un’esigenza oggi particolarmente acuta, quando il vasto pubblico dei non-specialisti è per necessità costretto dalla difficoltà dei problemi a nutrire fiducia nei confronti degli specialisti, che hanno dedicato la loro vita a studi che non sono a disposizione di chiunque. Di chi ci si può fidare? Di uno che ieri ha sostenuto il contrario di quel che oggi sostiene, e sempre con la stessa pretesa d’essere preso sul serio? Su questo punto – l’importanza del rapporto di fiducia – c’è molto da riflettere, soprattutto per gli effetti negativi che la rottura di questo rapporto comporta nei confronti di tutti coloro che appartengono al mondo della cultura, coinvolti nel medesimo giudizio di condanna per colpa di qualcuno: una sorta di responsabilità di gruppo. Il discredito sociale che colpisce il mondo intellettuale nel nostro Paese trova qui, nelle giravolte degli intelletti e di chi li porta, una delle sue ragioni.

Se, come abbiamo visto prima, il megafono degli intellettuali non può essere la voce dei potenti, dove cercare l’amplificazione della propria voce? La risposta la dà la democrazia. In fondo, l’ipotesi su cui non pochi hanno fatto conto – l’alleanza tra intelletto e potere – oltre a essere illusoria, tradisce un sottinteso non democratico: cioè che i prodotti dell’intelletto debbano diffondersi dall’alto al basso della società e che la gran massa dei cittadini debba essere passiva, non essendo in grado di partecipare attivamente all’elaborazione intellettuale. In una società democratica, l’unica alleanza possibile per chi svolge una funzione intellettuale è quella con la generalità dei cittadini, con la quale occorre aprire canali di comunicazione. Non si tratta affatto di diventare star televisive o agitatori di popolo. In proposito, vale sempre il monito di Max Weber: la cattedra non è né dei profeti né dei demagoghi. Si tratta, invece, di contribuire a formare un’opinione pubblica, continuando l’impegno severo dello studio, ma non disdegnando gli strumenti di comunicazione che raggiungono milioni di cittadini, e cercando d’apprenderne l’uso per diffondere cultura, capacità di riflessione, gusto per le idee. Non è facile. Bisogna saper trovare anche il linguaggio giusto. La “passione repubblicana”, il patriottismo della Costituzione, di cui Umberto Allegretti ci ha parlato in chiusura del suo discorso, passa anche per queste non aristocratiche vie, alle quali (purtroppo?) ci si deve piegare.

(1) Aufgabe und Notwendigkeit des deutschen Rechtsstandes in Deutsches Recht, “Zentralorgan des Bundes Nationalsozialischer Deutscher Juristen”, 1936, p. 181.

(2) Die offene Gesellschaft der Verfassungsinterpreten (1975), in Verfassung als öffentlicher Prozeβ, II ed., Berlin, Duncker & Humblot, 1996, pp. 155 ss.

(3)  Cfr. G. Amato, in Il PSI e la riforma delle istituzioni, Venezia, Marsilio, 2010, pp. 39-49.

(4) V. ad es., Postfazione, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Torino, Utet, 2006,  vol. III, p. 2824.

(5) Metodi interpretativi e costituzionalismo, in Quaderni costituzionali, 1/2001, p. 60.

(6) Pensare la democrazia. Antologia dai “Quaderni dal carcere”, Torino, Einaudi, 1997, pp. 307 ss.

(7) C. Kavafis, Settantacinque poesie, Torino, Einaudi, 1992, p. 59.

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