Piazza Affari, è l’ora dell’angoscia

13 Set 2011

In luglio dominava la preoccupazione; in agosto, sull’onda della manovra straordinaria, era spuntata la timida speranza che qualcosa cambiasse davvero. Adesso, invece, è l’ora dell’angoscia

In luglio dominava la preoccupazione; in agosto, sull’onda della manovra straordinaria, era spuntata la timida speranza che qualcosa cambiasse davvero. Adesso, invece, è l’ora dell’angoscia.

Nella City milanese, tra gli uomini che ogni giorno guidano la finanza e l’economia di casa nostra, il rientro dalle ferie è stato amaro: i timori di qualche settimana fa hanno lasciato il posto a un sentimento più profondo e palpabile.

Lo alimenta la sensazione di essere dentro una caduta senza freni, senza fondo e senza fine come quella di Piazza Affari, che solo nell’ultimo mese ha perso quasi il 12%, in un semestre poco meno del 40%. Lo rafforza ieri il giudizio senza sfumature che arriva dall’asta dei Bot dove i rendimenti schizzano oltre il 4%.

Lo conferma lo «spread» tra i Btp italiani e i Bund tedeschi – la sirena d’allarme che in questi mesi tutti abbiamo imparato a conoscere e temere -, tornato vicino al livello di assoluto pericolo dei 400 punti.

E’ vero – si spiegano da mesi l’uno con l’altro i protagonisti dell’economia che la tempesta è globale e tocca anche l’economia reale degli Usa; è vero che la crisi dei debiti sovrani si sta trasformando in una crisi del sistema bancario europeo; ed è vero anche che, sebbene l’Europa stia esponendo al mondo il suo peccato originale di un deficit politico, l’Italia non può fare la fine della Grecia perché ha un sistema assai più robusto e conti pubblici più in ordine. Eppure proprio l’innesto su questa crisi globale di un deficit di credibilità italiana che appare ormai conclamato – e acuito, invece che sopito, dal balletto estivo delle manovre a ripetizione – rischia di presentare al nostro Paese un conto tra i più salati, vanificando anche parte degli effetti della manovra. Un esempio? Il solo aumento dei tassi dei Bot annuali di ieri, circa un punto su 7,5 miliardi, costerà 75 milioni di euro l’anno di maggiori interessi, mentre il contributo di solidarietà del 3% previsto dalla manovra sui redditi sopra i 300 mila euro dovrebbe portare nel 2012 appena 35 milioni nelle casse pubbliche.

Le grandi banche italiane franano in Borsa, pur essendo probabilmente più sane, e con bilanci più leggibili, delle loro omologhe francesi e tedesche perché i mercati temono quel debito sovrano tricolore che sta nelle loro casse. L’economia reale non vede ancora una crisi galoppante, ma i primi segnali che il 2011 sarà un anno molto diverso da quello che l’industria si aspettava ci sono tutti. Segnali certificati proprio ieri dal primo calo anno su anno – dopo diciannove mesi in crescita – della produzione industriale. Rallenta l’export verso mercati tradizionalmente forti come Usa e Germania; s’incominciano ad avvertire tensioni sul costo del denaro; un settore portante come quello delle costruzioni ha subìto uno stop evidente, assicurano gli operatori. Le misure per la crescita devono ancora venire, mentre la manovra in arrivo avrà di sicuro qualche ricaduta recessiva. I bilanci di quest’anno – per tutti – si faranno soprattutto tagliando i costi, non certo puntando ad aumentare i ricavi. Nel mondo finanziario chi può permetterselo farà altre drastiche pulizie di bilancio, in attesa di un periodo che si annuncia tutt’altro che tranquillo.

Tante sicurezze sono saltate: il banchiere che lo scorso inverno spiegava allegro di aver investito una piccola parte del suo considerevole patrimonio in titoli di Stato greci, «perché danno rendimenti fantastici e figuriamoci se faranno mai default», adesso s’interroga sulla saggezza delle sue scelte e per sicurezza sta alla larga anche da quelli italiani. Chi prima delle ferie d’agosto aveva tentato il colpo con qualche acquisto in Borsa, pensando di aver già visto il peggio, ha dovuto ricredersi e prendere atto delle perdite. Nelle grandi banche d’affari e negli studi legali – dove pure i periodi di crisi davano in passato ottime opportunità di business – i telefoni squillano assai meno di un paio di mesi fa. Gli investitori stranieri non si fanno più vivi con la stessa frequenza: preferiscono aspettare per capire meglio che fine farà l’Italia nella tempesta globale.

Anche i nostri produttori e uomini della finanza, disorientati dalle crisi, cercano di capire dove, come e quando se ne uscirà. Se guardano al quadro globale sperano quasi che il morbo che ha colpito Grecia, Italia e Spagna si propaghi al più presto alle banche francesi e tedesche – e a Parigi già ieri se ne è avuta più di un’avvisaglia – convinti che solo così i due azionisti di maggioranza dell’Europa si decideranno a muoversi, colmando il vuoto politico che affligge l’Unione. Se guardano all’Italia chiedono un cambio di passo: che sia un governo tecnico o di solidarietà nazionale in fondo per loro poco importa. Quel che conta è provare a chiudere almeno quel deficit di credibilità che aggrava il peso della crisi.

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