Gli impossibili tagli ai “costi della politica”

13 Lug 2011

Nessuna classe politica ha spontaneamente rinunziato ai propri privilegi; ma lo hanno fatto in molte quando costrettevi dalla protesta popolare, seguita ad una sempre maggiore consapevolezza dell’impossibilità di continuare ad assistere al taglieggiamento della società. Quando il livello di malessere sociale e l’indignazione raggiunge il punto di guardia, allora si potrà essere costretti a effettuare dei cambiamenti che non siano puramente cosmetici, pena l’esserne travolti.

Si parla tanto dei tagli ai “costi della politica” e poi quando si viene alla resa dei conti questi consistono in ben poca cosa: misure di carattere più dimostrativo che realmente efficace e in ogni caso di scarsissima incidenza sulla enormità del debito pubblico. Ma quali sono i reali motivi di fondo che impediscono misure di tale tipo, sia al governo la destra o la sinistra? Ci sono in effetti alcune buone ragioni affinché queste non vengano mai intraprese realmente.

La prima – più sostanziale e frutto della semplice sapienza della storia – è che mai è avvenuto che il ceto dirigente di una società abbia spontaneamente rinunziato ai propri privilegi in nome dell’interesse nazionale o generale. E ciò tanto più quando questo interesse non è legato alle circa mille persone che risiedono nei piani alti della politica – cioè i parlamentari (di solito oggetto di ogni vituperio a mezzo stampa) la cui riduzione numerica, come proposto da Paolo Flores d’Arcais, avrebbe per lo più un valore simbolico – bensì alle decine di migliaia di persone che ormai vivono di politica e che sono incistate nei consigli di amministrazione dei vari enti municipali, provinciali, regionali, nelle Unità sanitarie locale, in comuni, enti montani, ATO e persino nei quartieri delle grandi città: tutti accomunati dall’interesse condiviso di salvaguardare le proprie rendite e posizioni di privilegio e di estendere (non ridurre!) quanto più possibile l’occupazione politica (e cioè partitica; o meglio ancora, di gruppi di potere che trovano provvisoria aggregazione in partiti-simulacri) di ogni ganglio della società, dalla amministrazione, alla scuola, dall’università (e la recente riforma darà un buon impulso in questo senso) alla magistratura (ci si tenta in tutti i modi, persino con la proposta della elezione popolare dei giudici). È questo ceto politico – una vera e propria classe parassitaria e privilegiata che ormai succhia risorse enormi all’economia reale – ad impedire una reale riforma dei costi della politica: anche il più illuminato dei leader non può sfidare impunemente la pancia del proprio partito, dopo che questa s’è nutrita e ingrassata proprio appoggiando il leader di riferimento e che quindi non gradirebbe né permetterebbe un “tradimento” che ne ridurrebbe il ruolo e il peso. Sono crollati gli imperi, sono affondati i regimi, si sono avute rivoluzioni che hanno decapitato (a volte in senso letterale) la classe dirigente, ma mai questa è stata in grado di autoriformarsi in maniera da superare la crisi politico-economica del proprio paese: solo gli eroi possono decidere di immolarsi in nome di beni superiori. E il ceto politico medio è fatto di tutt’altro che da eroi.

La seconda motivazione è una conseguenza della nuova politica nell’età della globalizzazione, che stiamo ormai vivendo anche in Italia. Le classi dominanti dei vari paesi – ivi comprese quelle italiane, le cosiddette élite tendono sempre più a vivere in un’ottica sovranazionale e a distaccarsi da un interesse comune legato al territorio e alla nazione. Esse possono ormai agevolmente muoversi nei vari paesi e spostare con facilità capitali, risorse, aziende, per cui sentono sempre meno la necessità di sottoporsi agli obblighi di solidarietà collettiva che in passato, quando lo Stato nazionale non era ancora entrato in crisi, vincolava le classi di un paese ad un comune destino. Un esempio paradigmatico è stato negli ultimi anni il caso della Fiat, sempre più globalizzata e sempre meno sensibile alle esigenze e alle preoccupazioni della classe operaia del proprio paese, del proprio contesto di insediamento sociale. Queste élite si mettono al riparo sfruttando i privilegi e il potere posseduto in un’economia in cui la ricchezza non porta con sé nessun obbligo di servizio verso la società, nessun fardello di un destino collettivo comune, libere di “delocalizzarsi” laddove sembra loro più conveniente e dove possono sfuggire ai sussulti e ai disordini – o anche al degrado – di un ordine sociale di cui non si sentono più di far parte.

Infine, anche i ceti dirigenti minori – di ogni tipo, specie professionali e burocratici, ovvero la “pancia” dei movimenti politici esistenti – hanno comunque la possibilità di cercare una loro “piccola salvezza” all’interno di una nazione che precipita sempre più. È allora importante sfruttare quanto più possibile le nicchie di potere e di privilegio possedute (e a cui appunto non si può e non si vuole rinunziare) in modo da creare delle “enclave” in cui assicurarsi quei beni comuni – sicurezza, sanità, istruzione, divertimenti – che vengono sempre più sottratti alla sfera pubblica e che diventano, per classi medie sempre più impoverite e ceti popolari sempre più plebei, via via più inefficienti e in degrado. E si spiega anche quella perversa alleanza tra globalismo e tribalismo identitario che ha nella Lega la sua maggiore espressione: consapevolezza, da un lato, di appartenere alla parte forte dell’Italia che per progresso sociale ed economico, per capacità innovative e dinamismo aziendale, può paragonarsi alle parti più evolute d’Europa; decisione, dall’altra, di rinserrarsi nella gelosa protezione di questo status privilegiato tagliando via da sé i rami secchi della nazione (il meridione, simboleggiato dall’immondizia di Napoli) e celebrando una presunta e fantasiosa identità celtica che serva da collante e motivazione ideologica per il proprio disimpegno dal destino di una patria comune. Tutto ciò nella indifferenza del ceto politico meridionale, che non si avvede del disastro incombente o che – nel caso in cui lo diagnostichi con chiarezza – è sempre convinto di poter accedere a quelle “piccole salvezze” che lo mettano al sicuro, ancora per molto tempo, dal generale declino.

Nulla da fare, dunque? Dovremmo rassegnarci ad alimentare una classe politica di alto medio e basso livello nella sua parassitaria esistenza a spese della società che lavora e produce? Niente affatto: dicevo prima che nessuna classe politica ha spontaneamente rinunziato ai propri privilegi; ma lo hanno fatto in molte quando costrettevi dalla protesta popolare, seguita ad una sempre maggiore consapevolezza dell’impossibilità di continuare ad assistere al taglieggiamento della società. Quando il livello di malessere sociale e l’indignazione raggiunge il punto di guardia, allora si potrà essere costretti a effettuare dei cambiamenti che non siano puramente cosmetici, pena l’esserne travolti. Vi sono stati ceti dominanti che non hanno saputo ben calcolare o scorgere tale punto di non ritorno e han finito per essere spazzati via da rivolte spesso cruente ed a lungo andare non sempre risolutive. Compito di una forza come LeG è di accompagnare questo processo verso una sua svolta radicale, non apparente, ma al tempo stesso in grado di evitare o la violenza che potrebbe scaturirne o il progressivo rassegnarsi ad un declino intessuto dalla capillare e molecolare ricerca della soluzione personale.

* L’autore è ordinario di Storia della Filosofia all’Università di Catania e coordinatore del circolo catanese di LeG

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