Tra polemiche e programmi

12 Mag 2011

Salta tutto, fair play, gentilezza, sondaggi, l’idea di una campagna elettorale in cui Milano è solo uno sfondo nella guerra infinita tra Berlusconi e le Procure: le parole del sindaco Letizia Moratti in tv e l’accusa allo sfidante Giuliano Pisapia, di essere stato amico dei terroristi ed aver subìto una condanna per il furto di un’auto, poi amnistiata, agitano la vigilia di un voto atteso, temuto, politicamente delicato.

Salta tutto, fair play, gentilezza, sondaggi, l’idea di una campagna elettorale in cui Milano è solo uno sfondo nella guerra infinita tra Berlusconi e le Procure: le parole del sindaco Letizia Moratti in tv e l’accusa allo sfidante Giuliano Pisapia, di essere stato amico dei terroristi ed aver subìto una condanna per il furto di un’auto, poi amnistiata, agitano la vigilia di un voto atteso, temuto, politicamente delicato. Fino a ieri si pensava che l’intreccio tra governo locale e stabilità nazionale (con la richiesta ai milanesi di votare un referendum sulla leadership di Berlusconi) potesse avere l’effetto di un bonus per evitare il ballottaggio al sindaco uscente. Da oggi si discute invece delle parole non rispondenti a una verità giudiziaria di Letizia Moratti in tv, forse malconsigliata da chi non aveva fatto tutte le verifiche tra gli atti di trent’anni fa. Un errore che il sindaco dovrebbe rapidamente correggere con le scuse all’interessato, per restituire a una campagna avvelenata un soprassalto di rispetto, anche tra avversari, e per valorizzare meglio i risultati positivi del suo quinquennio.
C’è bisogno di voltare pagina nello stile e nel modo di presentarsi ai cittadini (lo stesso Pisapia non ha usato i guanti di velluto quando ha detto che la Moratti è disperata e al servizio dei poteri forti) anche se è chiaro che la posta in gioco, domenica, è alta. E c’è sempre qualcosa da leggere nel voto di Milano.
L’idea di una città che anticipa gli umori del Paese non è retorica ambrosiana. Quel che accade a Milano, domani succederà nel resto d’Italia, scriveva Salvemini. È stato così con il primo centrosinistra, e poi con l’anomalia delle giunte rosse, fino all’exploit della Lega, beneficiaria nel ’93 di quell’ondata di manette e indignazione che spazzò via un’intera classe politica. Da Milano è partita anche la marcia trionfale di Berlusconi e a Milano nel ’97 il centrodestra è diventato maggioranza assoluta con Gabriele Albertini, il sindaco outsider che si guadagnò la riconferma nel 2001 rinunciando alla campagna elettorale con lo sfidante: gli bastò definirsi amministratore di condominio. E fece bene.

Anche se non ci sono sulla carta i numeri per un cambiamento, il candidato del centrosinistra Giuliano Pisapia è riuscito a compattare i consensi di un’area frastagliata e divisa che punta ad arrivare al ballottaggio, invitando alle urne i delusi e gli scontenti che di solito ingrossano il partito dell’astensione. La diaspora di Fini e la nascita del Terzo Polo con Casini e Rutelli, infine, ha aperto un corridoio nell’area moderata: i voti che il candidato Manfredi Palmeri, attuale presidente del Consiglio comunale, riuscirà a intercettare svuotano una parte del bacino di centrodestra e questo spiega le incognite del primo turno. Se il terreno di sfida non fosse occupato in permanenza dagli aut aut del premier contro i giudici ci sarebbe stato molto di cui discutere a Milano. Il vero dibattito sui temi aperti della città è rimasto invece sospeso, schiacciato dal clamore mediatico della polarizzazione politica che ha coperto, anche con manifesti indecenti, il significato del voto amministrativo. Si doveva parlare più della città, delle sue emergenze irrisolte e delle sue eccellenze che vengono invidiate anche all’estero, dei ritardi accumulati nei cantieri dei parcheggi, di Brera, del verde urbano, dei luoghi da salvare, della questione giovani. Perché a Milano nascono pochi bambini? Perché è così difficile metter su famiglia per le giovani coppie? E così si torna alla casa, ai prezzi troppo alti per chi non ha stipendi da manager, al Piano di governo del territorio che ridisegna l’occupazione delle aree, ai pendolari e alle infrastrutture per l’area metropolitana, la grande incompiuta degli ultimi trent’anni. Con la stessa franchezza si poteva parlare anche di quello che lo stesso sindaco Moratti ha fatto, non poco, con l’aggiunta delle due nuove linee metropolitane per il 2015 e dell’Expo, che dopo un’altalenante governance ha trovato stabilità con l’ex direttore generale del Comune, Beppe Sala.

Il nuovo che ribolle e fermenta nella pancia di Milano, una città che da sola produce un decimo del Pil italiano e concentra nel suo territorio l’industria finanziaria del Paese, con il 17 per cento delle banche, il 18 per cento dei depositi, il 29 per cento degli impieghi, stimola ogni giorno riflessioni sulla necessità di migliorare la qualità urbana, di essere sempre più attrattiva, di rilanciare la cultura del fare, il senso civico e la solidarietà. Di ricostruire anche quei ponti che a volte separano le tante anime della città, le mille isole che producono saperi, ricchezza, talenti. E di riprendere, tanto per dire, quel Manifesto per Milano che un anno fa, sul Corriere, invitava la città a trovare nel coraggio, nell’orgoglio e nella cultura del merito qualche antidoto al pessimismo che uccide la speranza e condiziona la crescita.

Letizia Moratti ha sfoggiato un attivismo da maratoneta per riavvicinare ogni zona della città e ripetere il bis del 2006, quando l’ex prefetto Bruno Ferrante rimase inchiodato al 47 per cento. Ha nella Lega una solida partnership e vuole vincere, per non lasciare a metà il lavoro svolto. Promette una Milano più bella da vivere, più sicurezza, l’aggiornamento del discusso Ecopass, un tentativo di risposta ai guai ambientali della città, ma il perno del programma è sul welfare municipale che tiene conto della crisi: nessuna nuova tassa per i prossimi 5 anni, niente addizionale Irpef, nessun aumento del biglietto del tram, niente imposta di soggiorno, libri di testo gratuiti per gli alunni di elementari e medie.

Giuliano Pisapia è partito dalle periferie per proporre una svolta solidale, garantista e multiculturale, cercando di smussare i dubbi di chi non gli perdona il passato in Rifondazione comunista e la frequentazione passata con personaggi legati agli anni di piombo. Punta anche lui sul welfare, sui bus gratuiti per gli over 65 e sulla trasparenza degli atti in Comune. Quella che fino qualche mese fa era una mission impossible adesso sembra una partita aperta. Il 15 maggio può succedere di tutto, dicono i sondaggisti. E la profezia di Salvemini? Si può aggiornare con le parole di un altro storico, Giorgio Rumi: Milano diventa grande quando ha un progetto per il Paese. Per ora sceglie un sindaco. Ma se vuole essere «altra capitale», modello, guida, riferimento per il Paese, un progetto prima o poi Milano se lo dovrà dare. Noi cercheremo di ricordarglielo.

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