A Teheran è in corso l’ennesimo scontro tra la polizia e i manifestanti pacifici, una città che dalle elezioni farsa, dopo le quali Ahmadinejad è salito al potere attraverso un colpo di stato, ha visto susseguirsi atti di violenza inaudita da parte del regime clericale nei confronti della popolazione che non accetta la dittatura sanguinosa che imperversa nel paese, gli esponenti ella Repubblica islamica hanno decretato l’impiccagione di Moussavi e Karruby, anche loro esponenti del regime, ma che tentano da tempo di prendere il potere e riportare in auge la politica Komeinista che ha dominato in passato nel paese dopo la caduta dello Sha.
In questi giorni, migliaia di persone stanno marciando nel centro della città, sfilano silenziosamente in sostegno della rivolta in Egitto, non scandiscono slogan, la polizia ha sparato gas lacrimogeni e ha usato violenza contro i manifestanti, di cui molti sono stati arrestati, si parla di circa 250 persone, numerosi feriti e un morto. Proteste anche in altre città iraniane, Isfahan e shiraz. Le autorità hanno vietato qualsiasi tipo di raduno.
Ahmad Reza Radan, capo della polizia, ha accusato i Mujaheddin del Popolo, cioè la testa della resistenza popolare, di aver ucciso dei manifestanti. Non è la prima volta che il regime dà la responsabilità ad altri dei propri omicidi.
Ricordiamo che molte organizzazioni internazionali, come Human Rights Watch, la Quarta Convenzione di Ginevra, la Commissione Speciale delle Nazioni Unite (UNISCOM), Rudolf Giuliani, Amnesty International, Barak Obama, hanno chiesto di depennare il PMOI dalla lista delle organizzazioni terroristiche internazionali, in quanto questa definizione è stata voluta dagli Ayatollah, che cercano di mettere in cattiva luce la resistenza del popolo. Tale richiesta è partita da una battaglia condotta da Comitato Nazionale della Resistenza (CNRI), che ha sede in Italia, e che ha immediatamente respinto le accuse del regime, sostenendo che è proprio quest’ultimo a reprimere i manifestanti, sparando proiettili e lacrimogeni, e che la versione del regime è falsa e pretestuosa, volta a giustificare “ulteriori esecuzioni di persone vicine ai Mujaheddin del popolo.
Anche Hossein Mussavi è stato posto agli arresti domiciliari, così come Mehdi Karrubi , capo del fronte anti-governativo, colpevoli secondo il regime dei mullah, di aver chiesto al ministero dell’Interno l’autorizzazione a manifestare per esprimere solidarietà ai popoli d’Egitto e della Tunisia.
Non mancano nemmeno i rituali arresti di attivisti politici e dei giornalisti, ricordiamo che anche i giornalisti stranieri vengono arbitrariamente arrestati, e poiché la Repubblica Islamica non riconosce la doppia nazionalità, sono regolarmente condannati a morte, ma non prima di aver subito le consuete violenze sessuali riservate ai detenuti, e diversi tipi di tortura nonché l’ amputazione di arti.
E’ evidente che in questo contesto di subbugli a livello internazionale, il regime iraniano teme che anche il minimo dissenso da parte del popolo, già stremato dalla situazione economica drammatica, e dalle imposizioni medioevali da parte degli ayatollah, possa interpretare le rivolte tunisine ed egiziane come un motore, un traino verso il rovesciamento del potere di un regime feroce e sanguinario, si pensi che solo nell’ultimo mese sono state impiccate 90 persone, naturalmente solo secondo le fonti ufficiali, ma si stima siano molte di più.
Il regime clericale dei Mullah opprime e prevarica i più elementari diritti umani, e la cosa che è importante chiarire, è che il popolo iraniano, la gente, è qualcosa di profondamente diverso dal regime che agli occhi dell’occidente li rappresenta.
Gli Iraniani stanno attuando una resistenza indomita nei confronti di una dittatura che non vogliono e non accettano, e chiedono diritti, libertà e democrazia.
Un popolo sfinito da una dittatura che dura dal 1 febbraio del 1979, quando l’Ayatollah Khomeini tornò in Iran cavalcando la rivolta sociale che aveva decretato la fine di una monarchia millenaria. Cominciò quindi a sostituire la monarchia con la costruzione della Repubblica Islamica, un regime basato sul principio di “Velayate Faghih”, ossia, “assoluta sovranità clericale”.
L’organizzazione dei Mujahedin del popolo (Pmoi) e altri gruppi politici, a fianco dei movimenti di opposizione che si erano appena affacciati alla libertà, cominciarono a protestare contro il regime, sostenendo che la loro idea di democrazia, non poteva prescindere dai diritti politici e sociali.
Intanto le guardie rivoluzionarie e i gruppi paramilitari reprimevano ogni voce della protesta, nonostante ciò gli iraniani organizzavano manifestazioni e raduni contro il regime.
Fu proprio in questo clima che i Mujaehdin del popolo, il 20 giugno1981 manifestarono pacificamente a Teheran, con più di cinquecentomila iraniani e gruppi politici che si opponevano. Ma anche in quell’occasione, la manifestazione fu repressa nel sangue con l’uccisione, il ferimento e l’arresto di migliaia di manifestanti. Seguì un’estate fra le più sanguinose della storia iraniana.
Attualmente il regime di Khamenei, guida suprema della Repubblica islamica, Al Maleki, premier irakeno, attraverso una meticolosa opera di “disinformazione”, ha incolpato i Mojeaheidin del popolo (PMOI), e alcune forze straniere, di omicidi che in realtà sono stati commessi dal regime. Uno è l’assassinio di Neda Agha-Soltan, la studentessa di 26 anni uccisa durante la manifestazione di protesta contro le elezioni farsa dopo le quali Ahmadinejad si è impossessato del potere.
Nel contesto attuale, è fondamentale chiarire il ruolo dei cosiddetti “riformisti”, di cui Moussavi (che ora cavalca l’ondata di nuove proteste) è ritenuto il primo rappresentante.
Questi, è in realtà uno dei personaggi più controversi della recente storia politica iraniana, che da un lato dà l’impressione di sfidare apertamente l’autorità del Presidente, ma dall’altro, rivendica l’eredità di Khomeini, che era sostenitore della partecipazione popolare al sistema.
Insomma, Moussavi attraverso le parole di Rasfanjani (detto “squalo” per la sua sete di potere e vero sponsor di Moussavi) è in realtà in lotta per il potere attualmente detenuto da Ahdmadinejad.
Moussavi non vuole altro che contrapporre al progetto del “Komeinismo senza clero” di Ahdmadinejad e Khamenei (i quali ritengono il consenso popolare “inutile” e non in accordo con l’Islam), un “komeinismo in turbante”.
Di fatto la lotta tra le due linee è, ora più che mai, aperta in Iran, ma nessuna di queste due condurrebbe alla democratizzazione e secolarizzazione del Paese, che in realtà, è ciò che il popolo iraniano auspica.
Quindi Moussavi, che millanta il suo ruolo riformatore e di di leader dell’Onda verde, non è affatto ciò per cui il popolo lotta, e il movimento dell’Onda verde non esiste più, le manifestazioni spontanee e popolari sono assolutamente indipendenti dalla sua figura.
Per focalizzare meglio la complessa situazione politica dell’Iran, in bilico tra il governo del “Velayate Faghi”, ossia l’assoluta autorità clericale, e il Komeinismo in turbante a cui auspica Moussavi sotto le spoglie di “riformista”, è necessario ricordare brevemente la sua storia politica:
Hossein Moussavi, è nato il 1941, ha studiato scultura all’università di Teheran, proseguendo poi gli studi in scienze politiche islamiche. Dopo la rivoluzione del 1979, fu tra i fondatori del partito della Repubblica islamica, organo particolare del regime Khomeinista.
Assume il ruolo importante e ideologico della direzione del giornale “Repubblica islamica”, con tutte le conseguenze di controllo e censura che ne sono derivate, ricordiamo che è proprio attraverso l’abbraccio mortale tra dittatura e disinformazione (meticolosamente creata attraverso un controllo ferreo anche della rete), che il sistema dittatoriale alimenta se stesso.
Attraverso la direzione del giornale, Moussavi seguiva alla lettera, la “linea dell’ Emam”, dettando la linea di Khomini, che consisteva nell’ avversare il primo governo post rivoluzione.
Il giornale che godeva del sostegno totale di Khomeini, organizzava la politica contro l’oppposizione dei Mojahedin del popolo, e incitava i bastonatori contro i dissidenti.
Moussavi, Premier negli anni ottanta, sia per il suo incarico, sia per la sua devozione verso Khomeini, ebbe un ruolo determinante negli atti sanguinosi del regime, almeno fino al 1989, periodo in cui ricopriva l’incarico.
Fu la mente, e il mandante di 144 azioni terroristiche all’estero, e della fucilazione di almeno 90 mila dissidenti politici, e di 30 mila prigionieri politici, tutti uccisi nell’arco di poche settimane nel 1988.
Creò l’istituzione del famigerato “Ministero delle informazioni”, e l’inizio degli assassinii a catena della classe intellettuale.
Fu tra i principali fautori della “rivoluzione culturale” delle università, responsabile di molte morti tra gli studenti, l’epurazione dei docenti progressisti, e la chiusura delle università stesse, che ha causato la fuga di milioni di studenti e docenti.
Del Governo Moussavi, facevano parte membri tra i più corrotti e feroci dell’ala Khomeinista, tra cui Reyshari, Rafighduost e Asgaroladi, solo per citarne alcuni.
Moussavi stesso, dal 1989 è membro del Consiglio per i pareri di conformità del regime, ed ha partecipato a tutte le decisioni più importanti del regime stesso.
Ha coperto l’incarico del “Supremo Consigliere” di Khatami tra il 1998 e il 2005.
E’ sempre stato partecipe nei consigli in cui si decideva la politica da seguire in materia atomica
In un’ intervista con il sito Salam, nel marzo 2009, dichiarava: “Il nostro progresso nella tecnologia nucleare può essere il trampolino di lancio ai nuovi spazi, e un nostro ritiro causerebbe arretramento anche in altri campi, soprattuo a livello geopolitico. Io non credo che nessun governo avrà mai il coraggio di non seguire la politica dell’ avanzamento nucleare. Se vogliamo dar attenzione ai nostri interessi nel lungo termine, dobbiamo capire l’importanza strategica del nucleare, e non avere in tale materia dei ripensamenti”.
Questo è lo stesso Moussavi che ha sempre dichiarato (quando con un’ ipocrisia funzionale alle sue mire nella lotta per il potere contro Ahdmadinejad), che il popolo non doveva scendere in piazza, per evitare bagni di sangue. E nel momento in cui veniva accusato dal popolo di fare il gioco del regime, rispondeva dicendo che agiva così proprio nell’interesse del popolo.
Sostenendo recentemente di auspicare la liberazione dei media, quando tempo prima era stato il più determinato censore, facendo anche il controllo dell’ informazione verso l’estero.
Ora è evidente che il “finto riformista” Moussavi, sta tentando, attraverso questo momento di ribellione del mondo mediorientale ( Tunisia dicembre 2010, Bahrein, ieri hanno proclamato la “giornata della rabbia”, Libia febbraio 2011 proclama la “giornata della collera”, Algeria, Marocco Camerun e Kuwait) di ritornare a cavalcare l’opportunità di governare.
Sia chiaro però all’occidente, che di fatto in Iran, la lotta tra le due linee dittatoriali, è ancora aperta, aspra più che mai. E nessuna di queste due condurrebbe alla democratizzazione e secolarizzazione del Paese, che è quello che la maggioranza degli iraniani auspica. Perchè l’ Iran, è una prigione a cielo aperto, dove la gente viene arrestata arbitrariamente per motivi tanto futili quanto pretestuosi, e dove anche i minorenni vengono condannati a morte.
E lo scontro tra le due fazioni, fa sì che le repressioni sul dissenso siano sempre più devastanti.
Del resto come potrebbe il popolo iraniano considerare Moussavi un riformista, se egli è stato un pilastro portante del governo di Khomeini, il quale aveva dichiarato che: “La Repubblica è un giocattolo della democrazia, che è fonte della corruzione” (Khomeini)
Purtroppo il problema della confusione occidentale sulle questioni iraniane, continua ad essere legato ad una cattiva informazione, naturalmente voluta dal regime, ma di cui certamente sono complici molti media internazionali ed è bene sapere che i video che giungono a noi, sono video amatoriali, girati da resistenti che rischiano la vita pur di far arrivare clandestinamente le immagini in occidente.
Il Presidente americano Barak Obama, ha detto che auspica che l’Egitto possa essere di esempio a tutta la regione medio orientale, anche se la risposta del governo iraniano è sanguinaria come sempre, spera che la gente possa resistere, e che è necessario sostenere la resistenza iraniana per auspicare a quel cambiamento necessario per dare corso ad un processo democratico dell’Iran, anche se in questo sciagurato paese, è più difficile che in Egitto, dove l’esercito è dalla parte del popolo, in Iran, c’è da giurarci, il regime sarà spietato nella sua consueta risposta di oppressione, perchè ora è più debole, e ha davvero paura che la gente ridotta a vivere in un “grande lagher”, non ha più niente da perdere. Vuole la morte del dittatore, o lui, o loro, non vi è alternativa.
“Sulla globalizzazione sono tutti d’accordo, a destra e a sinistra ”
di Massimo Fini
17/02/2011
“Ho l’impressione che il “popolo di piazza Tahrir” se lo stia prendendo in tasca. Dalla rivolta egiziana che, pagando il tributo di un centinaio di morti, ha cacciato il dittatore Mubarak, non è uscito qualcuno che l’abbia capeggiata, come fu Lech Walesa nel 1988 in Polonia, o un oppositore del regime di lungo corso come lo scrittore Havel in Cecoslovacchia, ma dal cappello a cilindro è saltato fuori il coniglio delle Forze armate. Una rivoluzione popolare si è trasformata in un golpe militare. Ora, in questi trent’anni, l’esercito è stato il principale sostegno di Mubarak e lo ha abbandonato solo all’ultimo momento quando glielo hanno ordinato i suoi padroni americani. Dagli Stati Uniti il pletorico esercito egiziano (460 mila uomini) riceve 3 miliardi di dollari l’anno e i suoi generali non godono solo di un’infinità di privilegi, ma sono i veri padroni dell’economia del Paese. Il fedelmaresciallo Tantawi, che sembra essere “l’uomo forte” della Giunta militare, anche se la situazione ai vertici del potere è ancora molto confusa e si chiarirà solo col passar delle settimane, era chiamato “il barboncino di Mubarak” e nei giorni convulsi della rivolta ha telefonato cinque volte a Robert Gates, il capo del Pentagono, per sapere come doveva comportarsi. Insomma il popolo egiziano ci ha messo la sua rabbia, la sua energia, il suo sangue ma questo grande, generoso, sforzo ha finito per essere pilotato dagli Stati Uniti ad uso dei loro interessi. Che sono che l’Egitto rimanga il loro principale alleato non occidentale nella regione in funzione pro-israeliana e anti-iraniana.
Il popolo egiziano è riuscito a liberarsi di un odioso dittatore, fino a ieri vezzeggiato e onorato dalle democrazie occidentali (e ha un significato, sia pur piccolo, che mister Berlusconi quando voleva tirar fuori dai guai se stesso e Ruby, interrogata dalla polizia, l’abbia spacciata per una “nipote di Mubarak”) che, come ogni dittatore, aveva instaurato uno Stato di polizia. Ma gli sarà molto più difficile liberarsi del “burattinaio” che tira i fili della politica del Cairo. E finché l’Egitto rimarrà sotto la pesante e pelosa tutela americana non sarà mai uno Stato libero né veramente libera la sua gente.
Le rivolte in Egitto, nel Maghreb (Tunisia, Algeria, Marocco), in Albania, nello Yemen sono certamente rivolte per la libertà contro dittatori patentati o mascherati in salsa democratica (è il caso di Berisha, molto simile a quello italiano) o monarchi assoluti, ma sono anche “rivolte per il pane” cui ha fatto da propellente una situazione economica divenuta, per una buona parte della popolazione, insostenibile (sarei molto più cauto sulle manifestazioni anti-regime in Iran perché sono anni che gli Stati Uniti, che difendono tutti i dittatori, anche i più criminali, quando gli fa gioco, da Batista a Pinochet al patinato e infame Scià di Persia per arrivare a Mubarak, soffiano sul fuoco per scalzare gli ayatollah, facendo finta di dimenticare che la teocrazia non è la democrazia, ma non è nemmeno il potere concentrato, a vita, nelle mani di un solo uomo). E in quei Paesi la situazione economica è precipitata o sta precipitando a causa della globalizzazione che è, in estrema sintesi, una spietata competizione fra Stati che passa sul massacro delle popolazioni del Terzo mondo, innanzitutto sui Paesi più deboli, e comincia a intaccare anche il nostro mondo, di noi europei costretti, quasi da un giorno all’altro, a buttare alle ortiche il welfare dalla peggiore, perché anonima, perché inafferrabile, di tutte le dittature: la dittatura del mercato. È esperienza di decenni che il capitalismo, industriale e finanziario, crea sperequazioni fortissime fra Paese e Paese e all’interno di ogni Paese. L’esempio più evidente ci viene dagli Stati Uniti, il Paese più ricco, più potente del mondo, che ha potuto ritagliarsi formidabili rendite di posizione dalla vittoria nella seconda guerra mondiale, dove vivono 33 milioni di poveri che sono tali non secondo gli standard americani, ma poveri e basta, anzi miserabili, homeless, clochard, barboni. O dalla Russia dove, oltre a ricchezze stratosferiche, la popolazione è ridotta incondizionitali che le oneste povertà dell’era sovietica appaiono fasti di un tempo felice (e le belle ragazze russe, laureate in biologia, in economia, in sociologia, che vengono a prostituirsi qui da noi ne sono una conferma). Eppure sulla globalizzazione sono tutti d’accordo, a destra e a sinistra. In un Wto del 1998 il presidente americano Bill Clinton ha detto: “La globalizzazione è un fatto e non una scelta politica”. E, in quello stesso Wto, Fidel Castro, di rincalzo: “Gridare abbasso la globalizzazione equivale a gridare abbasso la legge di gravità”. Il che è vero se noi al centro del sistema mettiamo l’economia, come dopo la Rivoluzione industriale hanno fatto sia i liberisti che i marxisti (tutto il resto è “sovrastruttura”). Ma sarebbe vero anche se noi al centro del sistema mettessimo uno spillo. Tutto dovrebbe ruotare intorno ad esso. Io mi chiedo e chiedo da un quarto di secolo (La Ragione aveva Torto?, 1985) se questa focalizzazione sull’economia abbia un senso.
UN SENSO umano, dico. Se al posto della competizione non debba essere messa la “cooperazione” com’era nei cosiddetti “secoli bui” del Medioevo (la Fiat, si strilli o meno, finirà per collocare le sue risorse in altri Paesi, giustamente se la logica è quella della globalizzazione e della competizione). Io credo che sia venuto il momento, se vogliamo, tutti, popoli del Primo e del Terzo mondo, salvare la ghirba, di una Controrivoluzione industriale che riporti l’uomo al centro di se stesso e releghi economia e tecnologia al ruolo marginale che hanno sempre avuto. Finché l’uomo ha avuto la testa.”
Massimo Fini