Il federalismo fa i gattini ciechi

12 Gen 2011

Ci sono molte lacune tecniche (e politiche) e un buco di tre miliardi

Fino ad ora si può dire che “abbiamo scherzato”. I decreti adottati (federalismo demaniale, Roma Capitale), hanno riguardato aspetti significativi ma tutto sommato marginali della riforma. Il decreto sui fabbisogni standard, come evidenziato dai primi autorevoli commenti, si limita a indicare un metodo di calcolo il cui esito, è quanto mai incerto circa la capacità di costringere effettivamente gli enti locali a produrre servizi a costi efficienti e, allo stesso tempo, a garantire su tutto il paese un adeguato standard di servizi. Ora, con il federalismo (fiscale) municipale, su cui il Parlamento si pronuncerà nei prossimi giorni, si decide se ai generici principi contenuti nella legge delega corrispondono poteri tributari, meccanismi perequativi, controlli, processi di riorganizzazione amministrativa tali da rendere concreti e operativi quei principi cui si riconnettono le decantate virtù del federalismo. Per questo si tratta di valutare se gli obiettivi e i vincoli posti dalla legge delega (n.42/2009) risultino davvero rispettati.
1) L‘autonomia fiscale è la leva per responsabilizzare gli amministratori in quanto rafforza il potere di controllo e di sanzione dei cittadini elettori. Il decreto fa però una scelta diversa perché la principale imposta locale (l’IMU) non la pagheranno i cittadini che usufruiscono dei servizi ma solo i proprietari di seconde case (in massima parte non residenti e non elettori) e le persone giuridiche (che notoriamente non votano). Viene quindi meno uno dei fondamenti del federalismo fiscale. Inoltre, poiché questa imposta è molto sperequata, per un numero assai alto dei comuni saranno determinanti le risorse del fondo perequativo: ciò significherà, per molte amministrazioni, tornare a quella finanza derivata che si voleva fortemente ridimensionata. Diverso sarebbe se, salve le esenzioni per i redditi medio- bassi, già previste per l’Ici dal governo Prodi, l’imposta comunale riguardasse anche i proprietari delle prime case prevedendo però la deduzione di questa imposta dall’Irpef: non aumenterebbero le tasse per i contribuenti, il saldo
per il bilancio pubblico sarebbe identico ma aumenterebbe la responsabilità fiscale degli amministratori.
2) La legge 42 stabilisce che la differenziazione delle basi imponibili deve essere perequata attraverso trasferimenti statali che garantiscano a tutti i comuni le entrate necessarie a finanziare i servizi fondamentali ad un livello quali-quantitativo (fabbisogno) standard a costi (standard) efficienti. Ebbene, il meccanismo che si ricava dalla lettura combinata dei due decreti (federalismo municipale e fabbisogni standard) è allo stato confuso e non garantisce nulla di tutto questo. Costi e fabbisogni standard rimangono ancora misteriosi e così il modo i determinare la capacità fiscale di ogni regione, provincia e comune. Nei fatti, il punto di riferimento rimarrà ancora per molti anni, quello della spesa storica, mentre il provvedimento che dovrebbe introdurre modelli organizzativi in grado di produrre efficienza (aggregazione dei piccoli comuni, eccetera), e cioè la famosa Carta delle autonomie, continua a rimanere al palo al Senato.
3) Un punto tassativo, ribadito dalla legge delega e dai decreti, è quello della invarianza della spesa complessiva e della pressione fiscale a carico dei cittadini e delle imprese. E’ ovviamente un aspetto decisivo soprattutto nella delicatissima fase che attraversa la finanza pubblica. Ciò che oggi appare già chiaro però è che la copertura finanziaria o non c’è o è quanto mai incerta: la perdita di gettito che si avrà con l’applicazione della cedolare secca sugli affitti, rispetto a precedenti documenti della Ragioneria generale dello Stato, risulta sottostimata per almeno un miliardo già nel 2011; inoltre, visti gli effetti molto sperequanti di IMU e cedolare secca, non è dato valutare con un accettabile grado di certezza quanto davvero costerà la perequazione per garantire a tutti i comuni risorse coerenti con quelle attuali (che peraltro, nonostante l’impegno del Governo, non risultano reintegrate dei tagli previsti per il 2011 e il 2012, pari a circa 2,5 miliardi). Mancano quindi all’appello per il prossimo biennio più di tre miliardi. E’ quindi fondato il timore che i comuni, in particolare quelli che vedranno crollare le proprie entrate e che sono anche i più poveri, per garantirsi la sopravvivenza saranno costretti a spingere al massimo la leva delle addizionali e soprattutto a ricorrere ad ulteriori pesanti aumenti delle tariffe dei servizi: acqua, nettezza urbana, asili nido, servizi culturali e di assistenza a bambini ed anziani.
Questi sono i problemi, politici certo ma molto concreti, che pone chi avanza dubbi sul federalismo così come, aldilà delle affermazioni teoriche e della propaganda, sta venendo avanti. Una riforma che promette una rivoluzione in nome dell’efficienza e della responsabilità ma che non va in questa direzione; una riforma che, in periodo di crisi finanziaria, rischia di avere un impatto fiscale e budgetario non governabile se non a danno delle parti più fragili del tessuto
sociale del nostro Paese. Questioni che non possono essere degradate a meri aspetti tecnici in nome di superiori ragioni politiche. Fu la stessa logica che spinse nel 2001 il centrosinistra ad approvare il nuovo Titolo V della Costituzione nonostante le serie obiezioni di merito che venivano avanzate. L’Italia ne sta ancora pagando le conseguenze.
*Segretario della Commissione bicamerale per l’attuazione del federalismo

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