Gli abusi delle off shore e le trame illeggibili

19 Ott 2010

La villa caraibica di Silvio Berlusconi. L’appartamento di Montecarlo dove alloggia il cognato di Gianfranco Fini. E ieri lo yacht di Flavio Briatore. E l’altro ieri lo chalet di Sankt Moritz del silenzioso commendatore milanese. La lista dei beni di uso personale intestati a società off shore è lunga. E viene, qua e là, saccheggiata nella polemica politica per avere argomenti da usare contro l’avversario. Argomenti che si suppone funzionino perché gli italiani si dividono in due grandi famiglie: i tanti che per scarsità di reddito o scelta di vita non ricorrono ai paradisi fiscali, e dunque sono portati a censurare queste furbizie; i non pochissimi che di certi mezzi si servono ma non sopportano di venire criticati, specialmente se la critica viene da confratelli nel «peccato». Ma come leggere le notizie di questi giorni senza farsi strumentalizzare di volta in volta? Dove sta l’abuso?

In realtà, gli abusi sono tre. Il primo riguarda lo strumento societario. Le società di capitali sono una cosa seria. Si intestano loro beni materiali e immateriali, titoli e denari per svolgere un’attività imprenditoriale. Ma siccome l’impresa può anche perdere, la società di capitali serve a limitare la responsabilità del capitalista, e questo è necessario laddove il rischio sia tale da scoraggiare l’investimento diretto della persona. I costi dell’impresa vengono perciò portati in detrazione fiscale. Intestare invece a una società case, barche, automobili e altri beni rilevanti di uso personale è scorretto. Chi lo fa dice che la barca l’affitta anche ad altri. Perfetto, ma allora faccia il charter di se stesso e paghi la società per l’uso che privatamente ne fa. E non si stupisca se la Guardia di finanza verrà a controllare. Tortuoso? Abbastanza. Ma allora s’intesti lo yacht e faccia sapere al fisco che si può permettere certe spese.

Il secondo abuso avviene quando la società, proprietaria dei beni d’uso personale, è situata in un paradiso fiscale dove l’azionista si nasconde dietro lo schermo di impenetrabili fiduciarie. Si ricorre alla società off shore non solo per risparmiare imposte, ma anche e soprattutto per rendere illeggibile la trama dei propri affari. In questi «paradisi» si perdono nel nulla le informazioni su chi compra da chi e a quale prezzo non solo case o terreni, ma anche — su ben altre dimensioni — merci imbarazzanti come le armi e tante altre merci normali come prodotti finanziari, petrolio, gas o, dicono le cronache, diritti cinematografici. Per aggredire il sistema bancario ombra, che ha generato la Grande Crisi, e per far emergere le riserve occulte di denaro, che possono destabilizzare i mercati, il G8 dell’Aquila ha lanciato la lotta ai paradisi fiscali della Black List. Per questo «paradisi» altrimenti civili come la Svizzera, Hong Kong e Singapore ora accettano le regole di trasparenza dell’Ocse e da osservati speciali sono entrati nella Grey List, dove il loro pentimento sarà verificato alla luce dei rapporti con magistrature e autorità fiscali dei Paesi normali. Santa Lucia (appartamento abitato dal cognato di Fini) e Antigua (villa di Berlusconi) fanno parte anch’essi della Lista Grigia. Curiosamente, l’una parla prima di esserne richiesta dalla magistratura italiana, l’altra, al momento, tace.

Il terzo e più grave abuso si dà quando a commettere i primi due abusi sono persone con responsabilità pubbliche: politiche, amministrative, giudiziarie, e fors’anche — dipende da ciò che predicano — religiose, associative, economiche e culturali. Se il cittadino qualsiasi viaggia sul filo del rasoio, passi: i suoi simili lo invidieranno, gli altri non lo inviteranno a cena. Ma un’Italia che abbia senso di sé non dovrebbe lasciar passare gli abusi eccellenti. Altrimenti il Paese del G8 sarà una casa di vetro sì, ma smerigliato.

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