La prossima marcia dei 40 mila

14 Ott 2010

La marcia dei 40 mila fu la manifestazione che pose fine a tutte le manifestazioni; fu il corteo di quelli che non vanno mai in corteo. Chiuse la stagione iniziata nel Sessantotto, durante la quale, con molto entusiasmo, si pensava che bastassero manifestazioni e cortei per imprimere un nuovo corso alla storia, ridistribuire il reddito, riformare tutto, dalle università alle fabbriche. Fu un importante sintomo della difficoltà dell’Italia a cambiare, sembrò risolutiva di problemi che si presentarono poi in forma più acuta.

Iniziò un processo che mise fine al «disordine», al prezzo di metter fine anche ai sogni. La marcia dei 40 mila fu la marcia di chi aveva paura; pur con qualche elemento propositivo, fu una marcia «contro», non una marcia «per», una marcia con l’obiettivo di ristabilire, nelle fabbriche e nella società, un insieme di valori che, per vari motivi erano al tramonto e andavano reinterpretati. Contribuì pertanto a una progressiva «chiusura» dell’Italia: negli Anni Ottanta l’Italia fece l’ultimo sforzo – coronato dall’insuccesso – di giocare un ruolo veramente importante nell’economia europea e mondiale, negli Anni Novanta si cominciarono a vendere e a chiudere grandi complessi produttivi, negli ultimi dieci anni la velocità di crescita dell’economia italiana è risultata nettamente e pressoché costantemente inferiore a quella degli altri Paesi europei. Per non parlare di Stati Uniti, Cina e quant’altri.

Naturalmente la marcia dei 40 mila è soprattutto un simbolo e a questa chiusura contribuirono molti fattori. Si può dire che, dopo di allora, il sindacato cominciò a giocare in difesa, ad aprire fortemente ai pensionati che oggi ne condizionano le strategie, a disinteressarsi dei giovani che oggi largamente lo ignorano; le sue lotte sono state lunghe guerre di posizione, la gestione ordinata della ritirata industriale dell’Italia che portò alla fine di Olivetti e Montedison, all’uscita da gran parte della chimica e della farmaceutica. E così dai grandi poli industriali il Paese ripiegò sui piccoli distretti industriali.

Alla «prudenza» del sindacato fece da contrappunto la «prudenza» degli imprenditori. Anche gli imprenditori, infatti, cominciarono a giocare in difesa. Negli Anni Ottanta tentarono ancora l’avventura internazionale, basandosi però su forze esclusivamente finanziarie. E dopo di allora ci fu un lungo seguito di ristrutturazioni tra il privato e il pubblico privatizzato di fresco, che talora mise in luce molta inventiva tecnica ma scarsa capacità, per i gruppi di grandi dimensioni e con qualche eccezione, di assumersi davvero il rischio del nuovo. Forse solo negli ultimi due-tre anni, limitatamente ad alcuni settori, si osservano nuovi piani, nuove visioni, un nuovo gusto del fare.

Per effetto del clima sociale e politico successivo alla marcia, i «sessantottini» non arrivarono mai al potere, non diedero quella spinta di rinnovamento che, opportunamente temperata e sfrondata di numerosi eccessi, sarebbe stata essenziale per mantenere al paese un clima di dinamismo culturale. Questo forse spiega il crescente distacco da un’Europa dove, senza che i risultati siano stati sempre brillanti, i giovani non furono così duramente emarginati. Per conseguenza, la politica appassì e si dissolse e i leader politici italiani sono mediamente di 10-15 anni più vecchi di quelli del resto del continente.

È più che legittimo domandarsi se oggi ci potrebbe essere una nuova marcia dei quarantamila che metta in moto un mutamento radicale di carattere economico, politico e sociale come quello di trent’anni fa. E la risposta è che forse ce la possiamo attendere tra qualche anno, con caratteristiche in parte opposte alla marcia di allora. Se mai questo succederà, non sarà la marcia degli impiegati e dei capi officina che temono di perdere il posto di lavoro ma dei giovani che un posto di lavoro non ce l’hanno e si devono arrangiare con lavori precari in un insopportabile clima di provvisorietà. Non sarà la marcia di chi si sente vicino alla pensione ma di chi è ragionevolmente convinto che avrà, al massimo, una pensione magra. La speranza è che non sarà una marcia contro, ma una marcia per un progetto, per un disegno del futuro, per un’assunzione di rischi e responsabilità che né la politica né la società sembrano oggi in grado di esprimere.

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