Il maggioritario per l’Italia non funziona

14 Set 2010

E’ lusinghiero per noi inglesi che il nostro sistema sia stato tanto spesso lodato nel corso del dibattito italiano sulla politica e la legge elettorale. E ci siamo sentiti lusingati anche quando quest’anno, a maggio, tanti commentatori italiani hanno espresso preoccupazione perché il nostro sistema elettorale maggioritario uninominale secco non era riuscito, per la prima volta in 36 anni, a produrre un governo forte, portando necessariamente alla formazione di un governo di coalizione per la prima volta dal 1945. Eppure, per quanto lusinghiera, l’attenzione è, a mio parere, sbagliata. Un sistema maggioritario ha funzionato bene per la Gran Bretagna, ma non è adatto all’Italia.

L’anno scorso ho girato l’Italia facendo ricerche per un nuovo libro, «Forza, Italia», che sarà pubblicato il mese prossimo da Rizzoli. L’obiettivo della ricerca era esplorare i punti di forza del Paese per trovare la «Buona Italia», in contrapposizione alla «Cattiva Italia» su cui tanti critici stranieri (me compreso) si sono concentrati. Dopo questo primo editoriale su «La Stampa» spero di scrivere regolarmente della Buona Italia.

Grazie a questa affascinante e piacevole ricerca ho concluso che le riforme non funzioneranno se non si adatteranno ai punti di forza e alla vera natura della società italiana. Ed è per questo che l’esperimento con i sistemi maggioritari è stato un fallimento. L’attuale collasso della maggioranza che sostiene il governo Berlusconi ne è l’ultima prova.

Alcuni diranno che il conflitto all’interno della coalizione di centro-destra è personale, un conflitto basato sul sostegno o sull’opposizione a Silvio Berlusconi stesso, e quindi non possono esserne tratte conclusioni strutturali o di sistema.

Ma questa è una spiegazione elementare. La realtà più profonda, sicuramente, è che la coalizione formata nel 2008 era artificiale. Così come lo era quella del 2001-06, anche se è durata più a lungo. Queste sono state coalizioni tra incompatibili, di meridionali con la Lega Nord, di riformatori liberali e conservatori, di fautori di un fisco indulgente con sostenitori dell’austerità.

A sinistra è lo stesso. Il Partito Democratico esiste veramente come partito? Perché le forze più vivaci ed attive a sinistra sono al di fuori del Pd, come la Sinistra Ecologia e libertà di Nichi Vendola o L’Italia dei valori di Antonio di Pietro? Perché il partito è lacerato dalle fazioni? Si può dire, correttamente, che tutti i grandi partiti raccolgono diverse tendenze, come il Partito Democratico in America, il Partito laburista in Gran Bretagna o la Spd in Germania. Ma è questione di proporzioni. Forse Pierluigi Bersani si accinge a dimostrare che sbaglio, ma apparentemente né lo stesso Pd né la sua sperata coalizione per il nuovo Ulivo sembrano avere una logica.

La speranza di alternanza, per i potenziali governi concorrenti, era comprensibile dopo Tangentopoli e il crollo della Prima Repubblica. Ma il detto militare che i generali cercano sempre di combattere l’ultima guerra, piuttosto che guardare alla prossima battaglia, è anche molto adatta alla situazione. La mancanza di alternanza è stata un vero problema nel contesto della Guerra fredda e in una politica dove gli estremi erano inaccettabili. Ma oggi? Tutti gli sforzi per produrre maggioranze solide, con il premio di maggioranza e la ricerca di partiti bipolari, sono falliti.

Ciò che ha l’Italia con l’attuale sistema elettorale è un’alternanza instabile. In aggiunta, ha fallito nel produrre governi operativi. Né il governo Berlusconi del 2001-06 né quello attuale sono riusciti ad attuare granché dell’agenda delle riforme, nonostante l’apparente forza di voto delle coalizioni in Parlamento. Perché? La mia convinzione è che il motivo è questo: le coalizioni erano artificiali, non reali, così come il Pd resta un partito artificiale.

L’elenco delle riforme che sembra essere in agenda per tutti include giustizia, istruzione, lavoro, federalismo, modifiche costituzionali, e altro ancora. Tutte queste riforme hanno bisogno di un ampio consenso perché ci sia una possibilità di realizzarle. Tutte richiedono l’accettazione di base da parte delle principali parti politiche che gli avversari hanno legittimamente il diritto di governare.

Eppure, né il consenso né l’accettazione sono possibili, fino a quando resta in piedi l’attuale sistema maggioritario e iper-partigiano. L’alternanza politica britannica funziona in parte grazie alla tradizione: è ciò a cui siamo abituati. Ma funziona soprattutto perché c’è in Gran Bretagna un’ampia accettazione delle regole del gioco politico.

Noi non abbiamo una costituzione scritta ma tutti i partiti politici accettano che la nostra tradizione costituzionale fissi alcuni requisiti e regole di base. A maggio di quest’anno, quando le nostre elezioni politiche non hanno prodotto una maggioranza assoluta, quella tradizione costituzionale è stata messa a dura prova. Eppure, in quattro giorni, è stata formata una coalizione ed è stata accettata dallo sconfitto Partito laburista. Esisteva già il consenso perché il cambiamento fosse regolare e legittimo.

In Italia, mi pare, il consenso deve essere creato e ricreato continuamente. Potere e interessi sono più divisi e più diffusi che in Gran Bretagna. La profonda divisione tra destra e sinistra è più di una semplice questione di filosofia o politica. Quindi, questa divisione di base ha sempre bisogno di essere colmata per creare il consenso e questo consenso richiede anche l’inserimento di altre forze, sia regionali o di settore. Per questo nel mio libro propongo che sia abbandonato il premio di maggioranza e che la legge elettorale sia riformata in favore di un sistema che scoraggi i partiti minuscoli ma che riconosca comunque la diversità e la diffusione di interessi politici e di identità.

Un sistema simile a quello usato in Irlanda, che permette di evitare le liste di partito votando direttamente per i candidati in circoscrizioni multiple, dove questi vengono scelti con un «voto singolo trasferibile» e raggruppati in base alle preferenze, con la soglia del 5% di consensi necessaria per ottenere seggi: questo è il tipo di sistema che mi sembra adatto a soddisfare le caratteristiche di base dell’Italia e a produrre governi capaci di riforma.

Nessun sistema elettorale è infallibile. Ma ogni sistema ha bisogno di incanalare la politica di un Paese, senza cercare di sovvertirla o trasformarla.

(Traduzione di Carla Reschia)

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