Istruzione uguale per tutti?

06 Mar 2009

L’incontro, secondo di un ciclo sui Diritti organizzato dal Circolo genovese di Libertà e Giustizia, è stato moderato da Enrico Pedemonte, da poco nominato Capo della redazione genovese di Repubblica. Ospiti Giovanni Bachelet, deputato membro della Commissione Cultura e docente di Fisica all’Università La Sapienza di Roma, e Roberto Olmi, Dirigente del Convitto Colombo di Genova. L’incontro ha poi visto la partecipazione anche dell’Assessore del comune di Genova Andrea Ranieri e del Presidente della Fondazione Ducale Luca Borzani.La Sala del Camino a Palazzo Ducale si è presto riempita di un pubblico che ha mostrato fino all’ultimo interesse e voglia di prendere parte anche attivamente a un tema che evidentemente è di interesse quanto mai attuale.Il dibattito ha preso le mosse dall’esigenza di ri-definire la stessa espressione “diritto all’istruzione”, in una società sempre più globalizzata, anche alla luce del senso che gli viene attribuito nel resto d’Europa e del mondo occidentale.Sempre più spesso il termine viene utilizzato ad indicare il diritto dei bambini dei Paesi in via di sviluppo ad accedere a una istruzione che consenta loro di farsi parte attiva nel processo di emancipazione anche culturale, oltre che economica.In Europa, d’altra parte, il diritto viene articolato sostanzialmente in due aspetti: da una parte ci si domanda con quali modalità la scuola possa e debba favorire l’integrazione di un numero ovunque crescente di immigrati, talvolta anche di seconda se non di terza generazione, che si sentono almeno in parte “francesi”, o “tedeschi” e così via, e pure partecipano inevitabilmente anche della cultura di origine, che forse non dovrebbero essere costretti ad abbandonare.

Integrazione come interazione, dunque, e non come uniformazione. La domanda che ne deriva, pertanto, è necessariamente fino a che punto i contenuti richiesti dalla scuola agli studenti debbano essere uguali per tutti, trasmettendo agli immigrati la stessa cultura che le élites nazionali hanno deciso essere quella giusta per “riprodurre se stesse”, e fino a che punto si imponga al contrario una nuova cultura che tenga conto dei saperi altrui, per giungere infine a una “fusione”.Il secondo aspetto riguarda la mobilità sociale: quando il diritto all’istruzione è sostanziale, e non solo formale, la mobilità è alta. L’Italia da questo punto di vista è purtroppo agli ultimi posti in Europa, complice anche la circostanza che di fatto l’obbligo di scelta sul proprio futuro è anticipato a un’età precocissima (13-14 anni), e che la scelta finisce così spesso per essere basata sul censo. Chi proviene dagli strati sociali più bassi tenderà infatti, forse anche su spinta della famiglia, a cercare di apprendere un’attività che gli consenta di inserirsi al più presto nel mondo del lavoro e cominciare a guadagnare.E’ emersa anche una critica alla sinistra, cui si rimprovera un certo conservatorismo, una scarsa percezione di questi problemi, una propensione a mantenere vecchi privilegi piuttosto che rischiare mettendo mano a una vera e propria riforma, in altre parole la mancanza di una battaglia ideale, anche non necessariamente rivolta a un modello specifico, ma con la capacità di porre il tema culturale con forza nel Paese.I relatori si sono trovati d’accordo nell’escludere la validità delle “classi ponte” ai fini non solo del rendimento scolastico, ma anche dell’inserimento: l’esperienza di questi anni ha dimostrato che spesso la presenza di alunni stranieri nelle classi è una risorsa per tutti, dando luogo a processi di integrazione che diventa in qualche misura reciproca.

Una soluzione potrebbe semmai essere, ha osservato il prof. Bachelet, quella di rafforzare l’insegnamento dell’italiano come seconda lingua, e qualcosa è stato fatto in passato in questo senso, anche se l’iniziativa purtroppo non ha avuto grande risonanza e oggi è sospesa. Per quanto riguarda la mobilità sociale, il prof. Bachelet ha obiettato che questo aspetto si realizza molto più facilmente in situazioni di crescita economica, mentre in tempi di crisi si tende di più a perpetuare lo status quo. E’ anche vero, ha osservato il relatore, che c’è tra gli insegnanti una certa resistenza alle innovazioni, ma va detto che questa resistenza deriva in molti casi piuttosto dalle modalità dell’intervento politico, più volte viste e oggi portate all’estremo, per cui a destra la riforma viene intesa in pratica unicamente come taglio esasperato di risorse, oppure come imposizione dall’alto di modelli per nulla condivisi, come appunto quello delle “classi ponte”. Quanto alla sinistra, la sacrosanta valorizzazione dell’uguaglianza delle opportunità ha talora determinato una insufficiente attenzione al valore del merito. Il preside Olmi ha trattato l’esperienza più diretta di chi con la scuola ci lavora e ci “litiga” ogni giorno, e il quadro che ne è venuto fuori è quello di problemi affrontati un po’ alla giornata, in maniera pragmatica ma forse anche un po’ estemporanea, cercando di venire incontro alle esigenze e ai problemi man mano che si presentano.

Peraltro, sebbene accada che si tenga conto quasi esclusivamente dell’età e della conoscenza dell’italiano ai fini dell’inserimento degli studenti nelle classi, rischiando così di creare problemi di scarso interesse e di scoraggiamento, i ragazzi recuperano sempre molto in fretta lo svantaggio iniziale quando gliene viene data la possibilità anche grazie allo scambio con i compagni. Ha inoltre sottolineato un gravissimo aspetto riguardante la mediazione culturale, che quest’anno non è più finanziata dal Comune.Ulteriori spunti interessanti sono venuti dal pubblico: si è posta in primo luogo la questione della seconda lingua comunitaria che dovrebbe essere insegnata, come in tutta Europa, accanto all’inglese. Oggi sembra che le ore dedicate a questa lingua – cui è stata sottratta una larga parte delle risorse – siano destinate probabilmente a confluire nell’inglese, chiudendo ulteriormente le opportunità che si offrono ai ragazzi di uscire da una soffocante scelta obbligata.Molti riferimenti sono stati fatti a Don Milani, sotto l’aspetto di una scuola inclusiva, che dovrebbe essere modellata sulle esigenze dei soggetti più deboli, specie negli anni dell’obbligo, in modo da garantire un accesso davvero paritario all’istruzione superiore.L’intervento dell’assessore Ranieri è stato incentrato sul desiderio di una scuola che torni a riconsiderare il tempo in funzione dei ragazzi, a ricostruirsi sulla base delle loro “facce”, delle loro storie, delle loro vite.

Una scuola che dia ai ragazzi anche la possibilità di “guardarsi intorno”, trovare i propri interessi e i propri talenti, certamente garantendo maggiore uguaglianza nelle opportunità, ma anche superando l’idea che l’accesso – o il non accesso – debba costituire l’unica base per valutare il successo sociale: occorrerebbe valorizzare le “tante” intelligenze del ragazzo, il sapere anche quando non è “standard”. Una scuola, inoltre, che vada al di là della “occidentalizzazione” e della stessa mediazione culturale, e che dia ai ragazzi italiani, accanto alla scelta delle altre lingue europee, l’opportunità di apprendere anche, ad esempio, l’arabo o il cinese.Sul tema del maestro unico si è osservato poi che si pone in contrasto non solo con la presenza di tante diverse nazionalità e con l’esigenza che la scuola si faccia promotrice, tra l’altro, di coesione sociale, ma anche con i cambiamenti sempre più rapidi e profondi del mondo. Occorre definitivamente fare i conti con un futuro molto diverso dal passato, con l’emergenza ambientale, le nuove tecnologie, i nuovi temi che prepotentemente vengono alla ribalta e che non avevano certo la stessa rilevanza in passato, quando il maestro unico era un modello possibile.La conferma viene dal pubblico, in un intervento si osserva come in una realtà sempre più complessa si siano tolte risorse – non solo economiche – pezzo per pezzo, fino ad avere classi più numerose con interventi di sostegno sempre più modesti, addirittura negati per le situazioni “non certificate”, mentre è noto che, a causa dei rischi e del disagio legato a un riconoscimento ufficiale di problemi caratteriali dei bambini, molti degli studenti che hanno problemi anche di una certa gravità non sono tuttavia riconosciuti ai fini di un sostegno del quale avrebbero invece necessità.Ancora dal pubblico giunge l’esigenza di non parlare più di “meritocrazia”.

Alla contestazione, da parte del Prof. Bachelet, che il 18 politico ha fatto molti danni ed è stato più fortemente voluto da chi meno aveva a cuore le sorti del diritto allo studio, si obietta che non sembra opportuno utilizzare questa espressione che richiama un “potere egemone della classe più colta” e che rischia anche di creare nei ragazzi l’illusione che il sapere sia strada obbligata e condizione sufficiente per l’acquisizione di ricchezza e di una posizione prestigiosa, per contrapporla al problema del 6 politico che del resto è un concetto che comunque non esiste più. Si potrebbe piuttosto parlare di “merito”, termine che valorizza anche chi lavora in fabbrica e non per questo difetta di un bagaglio di saperi e di esperienze.

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