La lezione di Giovanni Ferrara

19 Mar 2007

Queste osservazioni conclusive sono dedicate a Giovanni Ferrara. E alla sua lezione per noi. Una lezione che si è intrecciata sin dall’inizio con il percorso della nostra Scuola. Vorrei cominciare queste osservazioni, interrogandomi sulle ragioni di un nome. Dare nomi alle cose è, dopo tutto, una delle attività più importanti, anche in politica. Perché partito democratico? Che cosa vuol dire, che cosa esprime, che cosa evoca questa scelta? Consideriamo un principio elementare: in democrazia ciascuno ha diritto ad eguale considerazione e rispetto. Questa è l’isotimia dei greci, come ci ha insegnato molti anni fa Giovanni Sartori nel suo classico Democrazia e definizioni. E’ l’eguale dignità della persona, nel lessico europeo della Carta di Nizza. L’eguale status di cittadinanza democratica. Il principio elementare ci suggerisce che le politiche e le norme devono essere coerenti con il riconoscimento dell’eguale considerazione e rispetto dovuto a chiunque. Sono convinto che la stella polare sia quella della politica che mette al primo posto l’eguale rispetto che spetta a ciascun cittadino e cittadina, in quanto persona che ha pari dignità nella polis. Il nostro assioma dell’eguale rispetto è semplice ed elementare, ma genera un gran numero di teoremi di scelta sociale. In parole povere, dall’assioma dell’eguale rispetto derivano importanti conseguenze che riguardano i fini collettivi di lungo termine, gli obiettivi non negoziabili – quelli che ci consentono di riconoscerci e di distinguerci da prospettive politiche alternative – e la discussione sui mezzi, sui provvedimenti e sulle misure.

Giovanni Ferrara ci ha ricordato, nei suoi interventi alla nostra Scuola, il celebre discorso di Pericle alla cerimonia per i caduti, come ce la narra con spirito di veridicità Tucidide nel secondo libro di La guerra del Peloponneso. E ne ha fornito un’interpretazione incisiva e vivida, che ha offerto alla nostra riflessione e alla nostra discussione. E’ stata, per noi, una lezione importante. “Il nostro governo, dice Pericle, favorisce i molti invece dei pochi: per questo è detto una democrazia. Le leggi assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo i meriti dell’eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo stato, non come un atto di privilegio, ma come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento… riconoscere la propria povertà non è una disgrazia presso di noi; ma riteniamo deplorevole non fare alcuno sforzo per evitarla… Benché soltanto pochi siano in grado di dar vita a una politica, noi siamo tutti in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla strada dell’azione politica, ma come indispensabile premessa ad agire saggiamente.” Come ci ha suggerito Giovanni Ferrara, riflettiamo attentamente sui punti principali del discorso di Pericle: i molti, e non i pochi; la giustizia eguale; il riconoscimento del merito, entro un quadro di egualitarismo democratico per cui non devono contare le differenze in termini di risorse sociali; l’eguale competenza nel giudizio e nella valutazione delle politiche; il valore prezioso della deliberazione come processo inclusivo e non escludente (ancora i molti e non i pochi), che porta alle decisioni e alle scelte collettive (nel lessico greco, questa è l’isegoria, l’eguale diritto di ciascuno a prendere la parola e a far sentire la sua voce nel processo che genera scelte per tutti).

Ecco, allora, le prime implicazioni dell’assioma dell’eguale rispetto, come le possiamo ritrovare nel lessico remoto del discorso di Pericle. Un discorso paradigmatico, come sostiene John Dunn, l’autore del libro sulla lunga e sorprendente storia della democrazia, Il mito degli eguali, di cui ci ha parlato Michele Salvati.
Possiamo dire, quindi, che gli obiettivi della politica del partito democratico devono consistere in quelle misure e quei provvedimenti che tutelino l’eguale considerazione e rispetto per chiunque, indipendentemente da un gran numero di differenze (sociali, economiche, culturali, religiose, etiche), che possono –spesso e volentieri- ledere e rendere a volte terribilmente e intollerabilmente ineguale la considerazione e il rispetto per chiunque. In un mondo in cui, entro le società e tra le società, assistiamo ad una crescita vertiginosa delle ineguaglianze, abbiamo bisogno di una risposta politica. E questa, sulla base dell’assioma dell’eguale rispetto dovuto a chiunque, consiste nella gamma delle politiche miranti all’inclusione nella comune cerchia di cittadinanza, quando le differenze generano esclusione da una qualche cerchia sociale. La condivisione e la costruzione di una comune cerchia di cittadinanza sono e devono essere la riposta politica alla persistente produzione e riproduzione sociale, economica, culturale, etica, religiosa di ghetti. Ed è qui che si incardina il principio fondamentale della equa eguaglianza delle opportunità.

Un principio che discende dall’assioma dell’eguale rispetto e che deve rispondere e ci deve guidare in tutte quelle circostanze – che sono vere e proprie circostanze di iniquità distributiva o di ingiustizia sociale – in cui le persone sono svantaggiate rispetto ad altre persone, senza loro responsabilità. Nel caso più severo, le persone sono svantaggiate semplicemente perché è accaduto loro di nascere da una parte o l’altra del paese, in una famiglia, in nessuna famiglia, da una parte o l’altra di altri paesi, in un sesso, con un colore della pelle, ecc. Nel caso più severo, noi sbattiamo contro il fatto radicale dell’ingiustizia quando la faccenda riguarda i bambini e, prioritariamente, le bambine. Qui, dalle nostre parti, e in giro per il mondo. All’assioma dell’eguale rispetto si addice lo slogan delle buone scuole e delle buone università, secondo cui No child left behind. L’equa eguaglianza delle opportunità deve aprire le porte, i gates della nostra società: una società ingessata e bloccata dal privilegio di pochi, una società chiusa e castale che deve essere aperta in nome dell’eguale libertà di tutti. Ecco ancora un’eco del riconoscimento del merito, cui non deve essere di impedimento l’essere ricchi o poveri, del remoto discorso di Pericle. E, d’altra parte, si consideri: l’impegno a che il merito abbia il suo sacrosanto riconoscimento presuppone un quadro di sfondo di equa eguaglianza delle opportunità. Come dire, diritti, bisogni e meriti devono marciare insieme.

Né deve essere sottovalutata in proposito la tensione che si innesca inevitabilmente fra una politica che mira a favorire la competizione equa fra meriti e i suoi effetti, le ineguaglianze che ne derivano: un problema di equilibri instabili, da perseguire dinamicamente. Il principio di eguaglianza delle opportunità discende infatti dall’assioma dell’eguale rispetto ma apre inevitabilmente una tensione essenziale con esso. Una tensione che è propria di una società aperta, e che solo un pensiero politico mediocre, ottuso e conservatore (che può albergare tanto a destra quanto a sinistra) può progettare di eliminare, puntando tutto sull’una o sull’altra tessera del puzzle dell’egualitarismo democratico. Su queste faccende resta insuperato il contributo dato dal grande filosofo Bernard Williams nei primi anni Sessanta del secolo scorso, L’idea di eguaglianza. Un saggio che ha avuto un ruolo pionieristico e influente nella cultura laburista inglese e nella cultura liberal dei democratici americani. Un partito democratico si basa sulla convinzione che sia semplicemente inaccettabile che la sorte naturale e sociale, alle spalle delle persone, condanni come un destino inesorabile la qualità della loro vita. I loro obiettivi. E i loro progetti di vita. Questo ce lo chiede semplicemente l’assioma dell’eguale rispetto. Perché, come ha sostenuto il filosofo John Rawls, il più grande teorico della giustizia sociale del secolo scorso, in Una teoria della giustizia, “la distribuzione naturale non è né giusta né ingiusta; né è ingiusto che gli esseri umani nascano in alcune posizioni particolari entro la società.

Questi sono semplicemente fatti naturali. Ciò che è giusto o ingiusto è il modo in cui le istituzioni sociali trattano questi fatti. Le società aristocratiche o castali sono ingiuste perché fanno di questi fatti contingenti la base ascrittiva su cui assegnare l’appartenenza ad una classe sociale più o meno chiusa e privilegiata. La struttura fondamentale di queste società incorpora l’arbitrarietà che troviamo in natura. Ma non è necessario che gli esseri umani si rassegnino a subire questi fatti contingenti. Il sistema sociale non è un ordinamento immutabile al di là del controllo umano, ma è invece un modello di azione umana. Secondo la giustizia come equità, gli esseri umani accettano di condividere i propri destini”.
Valerio Onida e Stefano Rodotà hanno richiamato la nostra attenzione in proposito sull’articolo 3 della Costituzione e, in particolare, sull’importanza di entrambi i suoi commi. Vi ricordo la formulazione dell’articolo 3, come avrebbe fatto piacere – ne sono sicuro – a Giovanni Ferrara, uno dei difensori più rigorosi e fermi della nostra Carta, un patriota costituzionale: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” Non intendo commentare l’articolo 3 e le sue implicazioni, anche dal punto di vista della giurisprudenza costituzionale e dell’opera della Corte.

Basta, in proposito, rinviare all’aureo libretto di Ernesto Bettinelli sulla Costituzione come classico giuridico, il nostro classico giuridico. Vorrei piuttosto suggerire in che senso l’articolo fissi un ambito di principi, che è coerente con una varietà di interpretazioni politiche distinte. In particolare, mi interessa richiamare il succo del contrasto essenziale fra una prospettiva progressista e una prospettiva conservatrice, prese al meglio. Un contrasto che è generato dalla distinzione fra due diverse offerte di politiche in competizione fra loro, nelle democrazie costituzionali dell’angolo ricco del mondo. Chiamiamo questo contrasto, il contrasto fra la prospettiva del libertarismo (o liberismo, se si preferisce) e la prospettiva dell’egualitarismo democratico. Supponiamo che entrambe le prospettive di valore politico condividano oggi la priorità della libertà, della libertà eguale delle persone su qualsiasi altro valore ed obiettivo politico. E che, a partire da questa convergenza, divergano e si distinguano su che cosa si deve fare, su che cosa si deve politicamente fare, sulle agenda e non agenda pubbliche, in modi che siano coerenti con la priorità dell’eguale libertà delle persone. I libertari sostengono che tutto quello che dobbiamo chiedere alla politica è di assicurare e tutelare gli spazi di libertà e di scelta individuale delle persone e che, quindi, il pieno sviluppo della persona umana richiede una riduzione di quanto è determinato dalla scelta collettiva.

Stato minimo e arena delle transazioni e delle scelte individuali massima. Questioni di ostacoli saranno risolte al meglio dagli esiti del mercato. E nei casi di severa esclusione sociale o economica delle persone, dei perdenti sociali, potrà esercitarsi la virtù della compassione. I sostenitori dell’egualitarismo democratico sono invece convinti che, proprio per onorare la solenne promessa della priorità dell’eguale libertà, la politica deve produrre scelte collettive che rendano meno ineguale il valore che la libertà ha per le persone. E che cosa fa variare, a volte in modo insopportabilmente vistoso, il valore della libertà delle persone? La risposta è facile, ed è al centro della persistente questione sociale nelle forme mutate nel tempo che ci è contemporaneo: la diversità delle dotazioni sociali, economiche, culturali, delle condizioni personali che possono ridurre e, a volte, azzerare il valore della libertà per le persone. Possono riservare ai pochi l’uso della libertà, precludendola ai molti. E questo esito, se adottiamo il nostro principio elementare dell’eguale considerazione e rispetto dovuto a chiunque, è ingiusto. Esso chiede politiche che esprimano l’interesse collettivo, l’interesse di tutti, e non di pochi. Questo interesse è definito, in una prospettiva di giustizia sociale, dall’adozione del punto di vista dell’eguale cittadinanza o della pari dignità sociale di uomini e donne sulla distribuzione dei costi e dei benefici della cooperazione sociale.

Per dirla ancora con John Rawls, in questioni di giustizia sociale “il punto di vista dell’eguale cittadinanza è quello appropriato”. Di qui le due risposte diverse, le due interpretazioni politiche in competizione dei due commi dell’articolo 3. Un’interpretazione libertaria (o liberista) in termini di stato minimo e mercato massimo e un’interpretazione in termini di equità sociale, che è coerente con l’egualitarismo democratico e che discende ancora dal nostro assioma dell’eguale rispetto. Come sappiamo e come ci hanno mostrato efficacemente nel secondo modulo, fra gli altri, Tito Boeri, Maria Cecilia Guerra e Massimo Bordignon, il principio elementare e il nostro assioma hanno effetti su un’ampia gamma di politiche pubbliche, dall’educazione, alla salute, dalle politiche di welfare, dell’immigrazione a quelle della ricerca. Ma, vorrei aggiungere per completare il sommario esame delle implicazioni dell’egualitarismo democratico, essi hanno effetti anche sulla qualità della democrazia, considerata come regime politico: sotto il profilo delle sue procedure, delle sue pratiche e dei suoi modi di operare. Perché vi sono circostanze in cui la promessa dell’eguale considerazione e rispetto non è mantenuta, ed è sistematicamente disattesa e violata in virtù della natura del processo di competizione e deliberazione democratica e delle sue trasformazioni. (Si considerino i costi di accesso alla politica, il vizio ricorrente delle tirannie della maggioranza, le derive populistiche, gli effetti della mediacrazia, le collusioni fra poteri politici, poteri sociali, poteri economici, le logiche oligarchiche e opache che portano a decisioni sociali, i dilemmi sovranazionali e quelli subnazionali delle deliberazioni e delle scelte collettive, ecc.).

Così, possiamo osservare, l’assioma dell’eguale rispetto rende conto sia della democrazia come valore politico, in senso normativo – come dicono i filosofi –, sia della democrazia come forma di governo. E l’attenzione in questo caso deve essere focalizzata sui modi dell’inclusione nei processi di deliberazione dei molti, e non dei pochi. E sulla geografia mutevole dei livelli di governo, su cui hanno richiamato la nostra attenzione nel terzo modulo gli eloquenti interventi di Gustavo Zagrebelsky e Fabio Rugge. Perché il remoto discorso di Pericle ci ricorda quale ruolo abbia, ancora una volta, l’interpretazione dell’eguaglianza democratica intesa come isegoria, come l’eguale diritto di ciascuno a prendere la parola e a far sentire la sua voce nelle questioni che toccano tutti.
Ho esaminato la questione centrale per la prospettiva dell’egualitarismo democratico del rapporto fra libertà, eguaglianza e differenze. Ora, vorrei affrontare concisamente il problema delle differenze nello spazio non della persistente questione sociale, una questione che Giovanni Ferrara identificava alle radici dell’esperimento politico classico del V secolo, quanto piuttosto nello spazio del pluralismo etico. Del persistente pluralismo etico. Si tratta di un’altra questione cui Giovanni Ferrara ha dedicato la sua vita di pensiero e di azione: la questione della laicità della politica. Una questione, potrebbe osservare qualcuno, che sembrava essere un punto non controverso nella cultura pubblica.

Uno di quei rari punti di non ritorno, per cui non ti aspetti che la storia adotti il passo del gambero, per dirla con Umberto Eco. Sappiamo che la complicata faccenda politica-religione è tornata ad assumere un carattere influente e controverso, per una varietà di ragioni. Zagrebelsky ci ha detto cose importanti e incisive, in proposito. Consideriamo, per amore dell’argomento, solo le ragioni legate all’aumento delle nostre responsabilità causali, dovute alla crescita della conoscenza scientifica e dell’innovazione tecnologica. Questioni che attengono alla vita delle persone, e al significato ultimo che le persone sono libere di dare alla loro vita. Ora, come interpretare, sullo sfondo del pluralismo religioso ed etico o culturale, la laicità della politica? Come interpretarla nell’ottica dell’egualitarismo democratico? Neutralità? Indifferenza? O, di nuovo, equità e rispetto per il pluralismo? Propendo per la seconda formulazione, che ci può orientare in un’agenda destinata ad affollarsi. Al primo posto, la libertà di scelta delle persone. Rispetto a più di un potere: al potere statuale, al potere sociale, al potere religioso, al potere culturale. (Qui lo slogan dovrebbe essere: habeas mentem!”).
Una politica democratica deve mirare a tutelare spazi di libertà per la scelta delle persone, sulla base del principio “se vuoi, puoi”, e non del “devi”. Lo ripeto: spazi di libertà delle persone rispetto all’esercizio di poteri: poteri sociali, poteri economici, poteri religiosi, poteri tecnologici, poteri mediatici.

Mirando a generare norme che permettono. Non norme che obbligano. Altrimenti, essa sarebbe semplicemente incoerente con l’assioma dell’eguale rispetto. Ma si consideri quale sia la prospettiva che contraddistingue l’offerta politica della destra in questo tipo di questioni generate dal pluralismo religioso, etico o culturale, che caratterizza in modo persistente le società aperte. E’ in generale un’offerta politica che si connette in modo singolare con il credo dello stato minimo e del mercato massimo. Molto spesso la politica dei conservatori tende a preservare una comunità morale omogenea di maggioranza, generando la singolare tensione fra un elogio del mercato aperto e un elogio della società chiusa. Voglio dire che, mentre la politica dell’egualitarismo democratico prende sul serio l’idea di una società aperta in cui uomini e donne siano libere di impegnarsi in una varietà di progetti di vita (con il solo vincolo liberale della eguale libertà di chiunque e, naturalmente, del principio del danno), la politica conservatrice tende a un qualche impegno in termini di comunitarismo. E’ come se alla politica venissero rivolte sempre più frequentemente domande di “eticità”, nel suggerito qualche tempo fa da un osservatore penetrante quale Alessandro Pizzorno. Domande di preservare e conservare una comunità morale (presunta o immaginaria o illusoria) omogenea, che immunizza rispetto al cambiamento e all’incertezza, percepite come una minaccia o un male o un disvalore.

(Le difficili questioni del multiculturalismo, se ci si pensa bene, sono un’altra faccia della stessa medaglia.) Sono convinto che la politica dell’egualitarismo democratico dovrebbe resistere fermamente alle domande di eticità che perlopiù sono avanzate da poteri sociali o istituzionali o comunicativi, da autorità religiose e associative, piuttosto che da cittadini e cittadine. E mantenere la rotta, dettata dalla intransigente e meditata convinzione nella laicità della politica. Per ragioni di giustizia. Sullo sfondo non del semplice fatto del disaccordo, ma della persistenza nel tempo del disaccordo etico, culturale e religioso. Dovremmo ricordare, nell’avvio opaco del ventunesimo secolo fra passi del gambero, fondamentalismi e guerre sante di vario tipo, la saggia massima di Michel de l’Hopital, che la formulò nel terribile secolo delle guerre di religione europee: “Non importa quale sia la vera religione, ma come si possa vivere insieme”. E alla massima di Michel de l’Hopital mi piace aggiungere, laicamente, il monito di Carlo Mario Martini, secondo cui noi dobbiamo imparare a convivere nella diversità.
Giovanni Ferrara avrebbe condiviso questo modo di vedere le cose. Ne sono sicuro. E ci avrebbe insegnato la difficile arte della convivenza civile, in faccende difficili come queste. La nostra Scuola sarà fedele alla sua lezione.

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