Partito democratico, chi toglierà il pallone questa volta?

05 Lug 2006

Un passo della Mishnah dice che i fondamenti della società sono verità, pace e giustizia, ma le tre cose sono in realtà una sola: la giustizia. Infatti dalla giustizia, che poggia sulla verità, segue la pace. Simile è la definizione che apre l’enciclica Pacem in Terris di Giovanni XXIII (1963): la pace tra tutte le genti è fondata sulla verità, sulla giustizia, sull’amore e sulla libertà. L’aggiunta della libertà a me pare molto significativa. Anche se i seguenti quarant’anni hanno ahimé dimostrato quanto sia dura a morire, al riguardo, la diffidenza della mia Chiesa Cattolica (durata del resto molti secoli), l’aggiunta della libertà fra i principi fondanti di una società pacifica, confermata dal Concilio Vaticano II, ha il pregio di escludere ogni interpretazione totalitaria degli altri tre fondamenti (verità, giustizia e amore): in sé ottimi, ma, come purtroppo dimostra la storia, utilizzabili, con maggiori o minori acrobazie, perfino a giustificazione di un Lager nazista, di un Gulag comunista o di un tribunale della Santa Inquisizione. [In questo stesso senso, se mai si farà un Partito Democratico, mi piacerebbe che avesse una Carta dei Principi, non dei Valori: la parola Principi, spiegava di recente Zagrebelsky, implica con maggiore chiarezza che, prima ancora che uno scopo e un programma, essi devono rappresentare lo stile della nostra azione.Naturalmente anche della libertà si può fare abuso. E perfino un risultato della buona politica – la crescita del benessere fino alla cosiddetta società dei due terzi, come Scoppola ha già ricordato – può avere effetti perversi.

Ci ripensavo rileggendo uno studio Eurisko-Istituto Cattaneo del 2002, secondo il quale molti giovani stavano sviluppando un “ethos dell’illegalità” e crescevano “senza virtù civili”:
La percezione del bene comune, del valore della partecipazione, dei fondamenti costituzionali del Paese appare drammaticamente distorta. Sembra stia rapidamente prendendo piede un ethos “consuetudinario e piuttosto incivile, che potremmo anche definire ‘immoralità’ […] orientato alla diffidenza verso gli altri, alla tolleranza per l’illegalità, alla slealtà e al cinismo verso le istituzioni, che fa prevalere in ogni caso il calcolo dell’interesse personale sulla solidarietà e sulla disponibilità a fare sacrifici per il Paese”, come ha scritto recentemente il presidente dell’Eurisko Gabriele Calvi descrivendo gli studenti italiani “senza virtù civili”. Gli studenti paiono vittime di una pesante omogeneità culturale, nella quale svetta il primato del particulare sull’interesse collettivo e la forte criticità verso gli emblemi nazionale e gli assetti istituzionali, criticità che tende ad aumentare nelle regioni favorite a livello socio-economico ma che gradualmente tende ad uniformarsi anch’essa “al ribasso”, come scrive nella suddetta ricerca il Cartocci, in una unità nazionale che sembra cementarsi nella sfiducia e nella diffidenza verso gli istituti democratici dello Stato.Una simile mutazione antropologica ha radici lontane ma pare, purtroppo, ancora lontana da un superamento: l’impressione è di trovarsi in mezzo al guado, sia dal punto di vista locale –aggravato dal fenomeno Berlusconi, come suggerisce il Caimano – che da quello mondiale (o globale che dir si voglia).

Forse, quando si placheranno le trombe clericali, riusciremo di nuovo a discutere fra cittadini di diverse fedi e opinioni sul rapporto fra etica soggettiva e intersoggettiva, intorno a quel “nucleo morale minimo” senza il quale, diceva il vecchio Jacques Maritain, nessuna democrazia può sopravvivere. Ma qualcuno aveva già intuito questa mutazione incombente quasi trent’anni fa:
…devo riconoscere che qualche cosa da anni è guasto, è arrugginito nel normale meccanismo della vita politica italiana……c’è la crisi dell’ordine democratico, la crisi latente con alcune punte acute. Non guardate soltanto, amici, alle punte acute per quanto siano estremamente pungenti… Io temo le punte acute, ma temo il dato serpeggiante del rifiuto dell’autorità, della deformazione della libertà, che non sappia accettare né vincoli né solidarietà.
Sono frasi estratte dall’ultimo discorso di Aldo Moro ai gruppi parlamentari DC, il 28 febbraio 1978. Dio sa se Moro non ha dovuto, di lí a poco, provare sulla propria pelle quanto fossero acute le punte del terrorismo; eppure aveva la capacità di guardare al di là della pur terribile contingenza di quegli anni, e cogliere cosí linee di tendenza, pericoli e obbiettivi di lungo periodo per la politica e per la società.Moro muore e con lui muore un grande disegno di rinnovamento della politica italiana. Nella dozzina di anni che seguono, durante i quali crolla il muro di Berlino e l’Italia da paese di emigranti diventa terra d’immigrazione, i partiti di governo, anziché rilanciare la partecipazione democratica dei cittadini, cercano di mantenere il consenso tramite la saldatura progressiva fra potere politico e televisioni e l’escalation del clientelismo e della corruzione (annunciata come “fine dell’ipocrisia” da uno dei leader dell’epoca, mentre un altro dichiarava finemente che la politica è “sangue e merda”); e vengono meritatamente travolti dalla catastrofe di Tangentopoli e dai referendum elettorali.

Questi ultimi nascono sull’onda di un grande movimento civico, rappresentano una nuova speranza di rinnovamento della politica e del costume, e, benché i partiti sterilizzino il maggioritario con una legge elettorale che riduce anziché aumentare il potere dei cittadini e complica anziché semplificare la frammentazione partitica, parte comunque un nuovo bipolarismo che sconvolge la geografia politica del Paese, ben al di là delle aspettative di molti dei promotori. Dopo i primi nuovi sindaci arriva Berlusconi. E dopo Berlusconi, arrivano Prodi e l’Ulivo.In dieci anni, quante speranze e quanti successi. Abbiamo vinto nel 1996, siamo entrati nell’Euro e abbiamo fatto molte cose buone governando il Paese e molte amministrazioni locali. E adesso abbiamo vinto di nuovo tutte le elezioni e abbiamo scongiurato con uno straordinario referendum il rischio dello stravolgimento della nostra Costituzione. Ma oltre alle cose buone, quante delusioni e quante involuzioni. La sonora sconfitta del 2001, ma non solo. Ben prima, il “tutti a casa” del 1996, quando i capi dei due principali partiti ci hanno detto che non eravamo in America e l’Ulivo era stato solo un cartello elettorale. Discussioni sul centrosinistra col trattino o meno e altre scelte incomprensibili per persone di media intelligenza, come quella di non regolamentare le televisioni o il conflitto d’interessi (che erano nel programma) o rifare la Costituzione con Berlusconi (che non era nel programma). Anche cinque anni di opposizione durante i quali i partiti ci hanno due o tre volte illuso con aperture alla società civile, fusioni, liste comuni – ricordate la solenne firma del patto federativo in un teatro romano prima delle regionali del 2005, e quel che è successo subito dopo? – col bel risultato di far disamorare e tornare a casa gran parte di quella opposizione civile che nel 2002 si era messa in movimento a fianco dell’opposizione parlamentare.Scoppola ci ha invitato a non recriminare sulle occasioni perdute.

Ma quale etica della politica è possibile, se rinunciamo a giudicare decisioni d’importanza strategica, come lavorare sul serio o per finta a un nuovo processo politico unitario, astenersi o votare contro l’articolo 1 della riforma costituzionale di Berlusconi e Bossi, far intendere alla vigilia delle elezioni del presidente della Repubblica che su tutto si può trattare, perfino su Costituzione e Magistratura? E come fare a non recriminare, se il nocciolo duro di comando del centrosinistra è, con rare e non so quanto incisive new entries, sempre lo stesso da dieci anni a questa parte? Certo, negli anni pari erano alcuni ad accelerare e altri a frenare, mentre negli anni dispari i ruoli si scambiavano; quando poi si profilava, per motivata disperazione, la possibilità di una lista Prodi, tutti strillavano, e lui alla fine rinunciava; e cosí oggi si gode i suoi 103 al Governo. A proposito: mi sono chiesto quanto sia decisivo il problema dell’appartenenza al PSE dopo aver scoperto che nella recente suddivisione dei ministeri Giuliano Amato, che ne è stato vicepresidente, è stato catalogato “area Prodi” anziché “DS”. E quando recriminare, se non ora, ora che abbiamo votato e vinto in tre tornate differenti e non voteremo piú per un paio d’anni, ora che i nostri maggiori partiti sembrano di nuovo nel mood ulivista, oggi col nuovo nome di Partito Democratico? Certo, abbiamo vinto, e abbiamo vinto anche per merito dei nostri partiti. Parafrasando una frase di Helmut Schmidt sugli americani, i nostri partiti fanno molte cose che non ci piacciono, ma sono gli unici partiti che abbiamo.

Non solo. L’esperienza ha dato un duro colpo alla presunta superiorità morale della società civile. I (pochi) entrati in Parlamento sull’onda del primo Ulivo o di qualche grande fenomeno civico locale non si sono, tranne rare eccezioni, dimostrati migliori dei professionisti della politica: né come efficacia parlamentare, né come dialogo con gli elettori, né come capacità di farsi da parte dopo un paio di legislature. Anche loro hanno sistematicamente confidato, come il resto dell’establishment parlamentare, nell’unzione dall’alto piú che in una propria vigorosa azione sul territorio. Col notevole risultato, per esempio, che alcuni sono riusciti a ritrovarsi in un batter d’occhio minoranza nel partito che essi stessi avevano inventato; o altri hanno cambiato partito pur di essere ricandidati per la terza volta consecutiva. Dunque, in assenza di un vero processo politico unitario e innovativo e di elezioni primarie, le poche candidature nuove, anch’esse cooptate e non selezionate col voto degli elettori, vengono rapidamente risucchiate nella vecchia politica, senza vantaggio per nessuno.Questo quadro desolante mi farebbe concludere che anche stavolta si fa per scherzo: per motivi imperscrutabili, nell’ennesimo gioco delle parti, alcuni affondatori stavolta fanno i fondatori del Partito Democratico, e viceversa. O forse non imperscrutabili, solo inconfessabili: mosse dei due grandi partiti finalizzate a qualche guadagno tattico, schermaglie inconcludenti per dare, magari, un contentino a Prodi.

Con la serena certezza che l’esasperata reazione identitaria dei partiti piú piccoli, e magari anche di qualche loro componente interna, vanificherà il tutto, e si continuerà come sempre. O forse basterà lasciare la legge elettorale com’è, e il gioco sarà fatto. Con tanti saluti ai cittadini, anche stavolta contenti e gabbati dall’illusione di trovare un partito che, anziché fare da tappo fra loro e le istituzioni, consenta loro di “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, come dice l’articolo 49 della Costituzione.Per questo, quando Gitti mi ha invitato (a proposito, grazie), ero incerto se accettare. Ho accettato perché le amare parole che mi venivano alle labbra, “un contentino a Prodi”, mi hanno ricordato un’altra mia recente previsione sbagliata: quella sulle Primarie dell’anno scorso. Erano sbagliate anche le previsioni dei partiti: quasi quattro milioni anziché quasi uno è una bella differenza. Niente velleitarismi: senza i partiti non si sarebbero potute fare. Ma per ogni iscritto ai partiti ne sono stati coinvolti altri tre; e tutti hanno pagato, pur di votare. Quando i partiti si aprono alla partecipazione dei cittadini, i risultati sono inimmaginabili. Una simile esperienza abbiamo avuto nel comitato del referendum costituzionale, dove, dalla raccolta delle firme alla recente campagna elettorale, associazioni e movimenti della società civile e partiti hanno lavorato fianco a fianco. Anche in questo caso il risultato è stato straordinario.

Malgrado tante delusioni, cittadini ed elettori sembrano sempre pronti a riemergere tumultuosamente, come un fiume carsico, quando viene offerta un’opportunità di partecipare. E quando lo fanno le cose vanno bene per tutti. La ricetta sarebbe perciò abbastanza ovvia: chiamare di nuovo a raccolta il popolo delle primarie nel primo anniversario, come suggerisce Paolo Prodi nel prossimo numero di MicroMega, per eleggere, per esempio, il comitato ordinatore del nuovo Partito; e magari, aggiungo io, per chiedere contestualmente a loro, ai quattro milioni, oltre che ai segretari dei partiti piccoli e grandi di cui sono certamente elettori, se questo processo deve andare avanti.In fondo, perché non sperare di nuovo? Diamo un’altra possibilità, come il contadino del Vangelo: «Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest’anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no, lo taglierai». (Lc. 13, 6-9) Forse anche stavolta finiremo come Charlie Brown dopo la sua lunga rincorsa, quando Lucy, come sempre, gli toglie il pallone al momento del calcio. Chi toglierà il pallone stavolta? D’Alema o Mussi, Veltroni o Cofferati? I Comunisti Italiani o i Rifondaroli? Verdi e radicali, o Marini e Rutelli? O a togliere il pallone saranno, alla fine, proprio Prodi e i prodiani? Chissà.

Magari sarà invece la volta che riusciamo a dare davvero il calcio al pallone. L’etica della politica, ci ha insegnato il presidente Scalfaro nella manifestazione conclusiva del referendum, è nel buttarsi in una battaglia in cui si crede per il bene del Paese quando l’esito è incerto, convinti che il proprio contributo potrà essere decisivo per la vittoria. Anche se perdessimo, mi ha detto un’altra volta Paolo Sylos Labini, avremo sempre la soddisfazione di poterci ancora guardare allo specchio la mattina, quando ci facciamo la barba”. Sono questi i motivi che inducono, ancora una volta, a impegnarsi e sperare.
Intervento per il convegno “La costruzione del Partito Democratico”, Hotel Radisson, Roma 4 luglio 2006

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