Tv, la legge che non piace all’Europa

26 Lug 2005

Una recentissima decisione del Consiglio di Stato – massimo organo della nostra giustizia amministrativa – ha rinviato alla Corte di Giustizia europea la valutazione relativa al contrasto tra la disciplina italiana sulle televisioni ed i principi stabiliti a livello comunitario in tema di tutela del pluralismo informativo, con riferimento a dieci quesiti specifici che spaziano dalle modalità di attribuzione delle frequenze alla configurazione del SIC (il mercato di riferimento per la valutazione delle posizioni dominanti).
Il caso portato all’attenzione del Consiglio di Stato riguarda la situazione dell’emittente televisiva Europa 7, che dal 1999 si trova nella singolare condizione di essere titolare di una concessione per la diffusione televisiva su frequenze terrestri in ambito nazionale, senza tuttavia aver mai ottenuto dalle competenti autorità l’assegnazione delle frequenze necessarie a svolgere l’attività in questione.
In effetti – come più volte denunciato anche dalla Corte Costituzionale e dall’Autorità Antitrust – la distribuzione delle frequenze televisive in Italia risulta da un puro e semplice stato di fatto, prorogato nel tempo ad opera prima della legge Maccanico e, quindi, della legge Gasparri, la quale ultima è intervenuta ad impedire che il regime di proroga – cui la sentenza della Corte Costituzionale n.466\2002 aveva posto il limite ultimo del 31 dicembre 2002 – avesse termine, obbligando così le emittenti prive di concessione, tra cui Retequattro, a rilasciare le frequenze via etere terrestre dalle stesse “occupate”.

Ovviamente danneggiata da tale situazione e dall’inattività delle autorità pubbliche competenti, Europa 7 chiede oggi l’assegnazione delle frequenze che ha diritto di ottenere in base alla concessione del 1999 nonché il risarcimento dei danni subiti a causa dell’impossibilità di esercitare l’attività radiotelevisiva, danni quantificati in molte centinaia di milioni di euro: davvero paradossale sarebbe che i contribuenti italiani si trovassero a dover pagare i danni risentiti da Europa 7 in conseguenza di norme di legge e di comportamenti della pubblica amministrazione che hanno avuto come effetto quello di avvantaggiare altri operatori televisivi privati, nel cui interesse tali norme sono state emanate.
Nella decisione in esame, il Consiglio di Stato rileva l’evidente contrasto tra il cosiddetto far west dell’etere che caratterizza la situazione italiana e quanto stabilito da una serie di direttive comunitarie, emanate nel 2002, per l’assegnazione delle frequenze secondo criteri obiettivi, trasparenti e non discriminatori; analizza inoltre, il Consiglio di Stato, l’evoluzione della legislazione italiana in materia televisiva e la correlativa serie di censure mosse negli anni dalla Corte Costituzionale, rilevando come queste ultime siano state costantemente eluse dal legislatore, il quale ha di fatto sempre legittimato a posteriori le posizioni dominanti di fatto createsi e progressivamente rafforzatesi nel tempo.
Esamina quindi il Consiglio di Stato i principi di tutela del pluralismo e della concorrenza che informano il diritto e la giurisprudenza comunitari e che sono alla base di una serie di prese di posizione di organi quali il Consiglio d’Europa, il Parlamento europeo e, nel giugno di quest’anno, la European Commission for Demoracy through Law, nelle quali la situazione italiana di duopolio nell’informazione televisiva viene messa sotto accusa.

La decisione si conclude con il rinvio alla Corte di Giustizia europea di alcuni quesiti, attinenti appunto la compatibilità delle disposizioni in vigore in Italia con le sovraordinate disposizioni di fonte comunitaria: ben consapevole che compito del giudice dello stato membro è disapplicare direttamente le disposizioni interne contrastanti con quelle comunitarie, il Consiglio di Stato ritiene tuttavia di individuare la necessità di un intervento chiarificatore della Corte, intervento che, a termini di Trattato UE, si giustifica in presenza di dubbi interpretativi.
Non si può che plaudere alla decisione di sollevare il problema relativo al contrasto delle disposizioni legislative italiane che regolano la materia televisiva con i principi comunitari (oltre che con quelli costituzionali, come più volte rilevato dalla Consulta): tuttavia, proprio per l’evidenza di quel contrasto, la delega poteva forse essere evitata e la decisione conseguente assunta dal nostro autorevolissimo organo giudiziario.
La voce del Consiglio di Stato si aggiunge, dunque, a quelle – sia interne che internazionali – che denunciano l’ingiustizia della nostra legislazione in materia televisiva: possiamo sperare che lo spinoso, ma ineludibile, tema trovi spazio nel programma dello schieramento guidato da Prodi?

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