IL GOVERNO DRAGHI E LA SUA FINE

26 Luglio 2022

Il governo Draghi, un governo tecnico, di larghe intese, quasi di unità nazionale, ha alcuni precedenti, in ultimo, il governo Monti. Un esecutivo tecnico si impone quando vi è larga, larghissima convergenza su alcuni problemi da affrontare e sulle soluzioni da darvi: sono questioni su cui tutti concordano che sia meglio lasciar fare agli esperti. Questo comporta che i governi tecnici siano super partes e non gli sia congeniale affrontare temi chiaramente politici.  Ma siccome temi politici emergono in politica ogni momento, un governo tecnico ha inevitabilmente una durata limitata.

Mentre il ricorso a Monti era dovuto a cause oggettive che costituivano una vera emergenza, l’allargarsi dello spread nonché l’assoluta, provata e dichiarata incapacità del governo Berlusconi di far fronte alle richieste della Bce, i due problemi che hanno spinto i principali dirigenti politici a ricorrere a Draghi. La gestione della pandemia e la preparazione del Pnrr, non costituivano vere emergenze. Vi era una certa insoddisfazione su come il governo Conte le stava affrontando, ma non c’è dubbio che Conte e i suoi ministri le stessero affrontando e avessero le capacità per farlo.

Che cosa dunque ci spinse a sostituire Conte con Draghi? E’ quasi inspiegabile, perché le critiche all’operato di Conte non erano più fondate e gravi di quelle che riceve normalmente un governo. A mio avviso, occorre fare riferimento a una duplice circostanza: il fatto che fosse in elaborazione il Pnrr e la convinzione diffusa che Mario Draghi fosse eminentemente qualificato per sfruttare appieno l’occasione che costituiva per l’Italia.

Più precisamente, Draghi da un lato era ritenuto un bravissimo tecnocrate, dall’altro apparteneva all’élite politico-economica dell’UE: per la sua presidenza della Bce, aveva guadagnato la stima e la fiducia di tutti quelli che contavano in Europa. A rigore, in poco tempo anche Conte, uno sconosciuto nuovo arrivato, aveva saputo farsi valere in Europa; ma le capacità di Draghi come Presidente della Bce lo ponevano in posizione di netta superiorità.

Il compito che spettava a Draghi era allora triplice: 1) proseguire e migliorare l’elaborazione del Pnrr; 2) rendersene garante verso la UE; 3) convincere i partiti che si dichiaravano disposti a sostenerlo a soddisfare le richieste della UE: riforma fiscale; riforma dell’amministrazione pubblica; introduzione della concorrenza, a lungo osteggiata, fatta oggetto di continui rinvii, nonostante sia un principio cardine dell’UE, nella nostra legislazione.

Il punto 3) era evidentemente il più difficile, perché richiedeva delle capacità politico-diplomatiche delle quali Draghi non era ancora uno sperimentato praticante. Draghi dovette temere moltissimo di scontrarsi con i suoi -spesso riluttanti- sostenitori. Al punto da blandire Salvini offrendogli nei primi mesi del suo governo un condono fiscale. E siccome non si preoccupò minimamente di affrontare i problemi amministrativi-organizzativi che erano alla base dell’accumulo di cartelle esattoriali inesigibili, lasciò a Salvini l’occasione di ripetere la sua prodezza nel giro di 3-4 anni.

Inoltre, Draghi adottò la tattica di rinviare le questioni conflittuali e di trattarle con una certa lentezza, a volte trasformata in opacità. Ad esempio, ha affrontato la riforma fiscale, una delle condizioni del Pnrr, con una legge delega i cui contenuti andranno fissati un po’ alla volta e di cui nessuno sa nulla. Tra i temi la lotta all’elusione e all’evasione fiscale, estremamente controversi e conflittuali, che ben potrebbero scatenare l’opposizione di tutti i partiti del Centro-Destra, compresi i due che sostenevano l’ex governo.

Per molto meno, l’aggiornamento del catasto, il Centro-Destra si è opposto duramente. Invano il governo ha ricordato che come esecutivo tecnico gli spettava aggiornare il catasto, non decidere sulla tassazione degli immobili. Il solo timore di un catasto non più inutilizzabile agli scopi della fiscalità locale si è dimostrato sufficiente per indurre il Centro-Destra a mobilitarsi contro il provvedimento.

D’altro lato, la pandemia con le sue specifiche misure fiscali, una serie di trasferimenti di fondi pubblici a imprese e famiglie, ha creato un buon clima nella maggioranza di governo: a chi non piace distribuire fondi pubblici finanziati in deficit? Tanto che ci si può chiedere se Draghi e i suoi collaboratori abbiano anche preparato un piano di rientro nelle regole fiscali europee e nella nuova disciplina della Bce.

Ora Draghi ha dato le dimissioni per mancanza di sostegno dei due partiti del Centro-Destra e del M5S. Draghi nella sua esasperazione si è appellato al popolo, opponendolo ai partiti. “Il populista delle élites” è stato subito chiamato, perché gli inviti a restare venivano da ambienti e gruppi qualificati.

E’ peraltro possibile che l’economista alludesse alle circostanze nelle quali la sua designazione era stata fatta e agli scopi del suo governo, che doveva e voleva essere super partes. Forse il patto implicito tra Draghi il Parlamento e il popolo era il seguente: lui avrebbe fatto venire i soldi, in cambio di riforme le più blande possibili, insomma, di riforme da presentare a Bruxelles. Dunque la sua non era un’assurda pretesa di inesistenti “pieni poteri”, ma la richiesta di poter fare quel minimo che servisse per presentarsi a Bruxelles sostenendo che la sua missione fosse compiuta.

Molte persone vorrebbero che il governo Draghi continuasse, anche a lungo. Per loro conta la statura dell’uomo, la sua autorevolezza, la sua dignità: una miglior immagine dell’Italia nel mondo. Il Pnrr, che lo stesso ex premier disse essere quasi pronto alla fine del 2021, quando si preparava a diventare Presidente della Repubblica, nella parte degli adempimenti probabilmente non lo è.

Certo nuovi problemi sono sorti, tra cui la guerra. E Draghi per la sua fede atlantista e la sua determinazione nel concorrere al riarmo dell’Ucraina è sembrato un leader ideale più che ai suoi colleghi europei o ai cittadini italiani, a Biden e a Zelensky. Né gli estimatori sono solo quelli che hanno inviato i messaggi, le esortazioni, le suppliche.

Ad esempio Luigi Guiso, un valido economista della Banca d’Italia che collabora con il governo Draghi, ha dichiarato fieramente in un’intervista su Domani (del 23/07): “Era da De Gasperi che non avevamo un riorientamento così deciso sul fronte internazionale, una posizione molto chiara nel blocco atlantico, che dà una direttrice”.  Ma l’uomo con molte virtù e molte frecce al suo arco non avrebbe potuto “dare alcun riorientamento, alcuna direttrice” alla nostra politica estera come capo di un governo tecnico.

(24/07/22)

(*) Giacomo Costa, a lungo ordinario di economia monetaria e creditizia all’Università di Pisa, è economista, saggista e socio di Libertà e Giustizia.

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